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La battaglia di Adua. Colonialismo, Corporalità e Potere nel romanzo Adua di Igiaba Scego

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La battaglia di Adua

Colonialismo, corporalità e potere nel romanzo Adua di Igiaba Scego

Tesi di laurea magistrale (MA) Università di Amsterdam Facoltà di Scienze Umane

Simone Moissidis 10207848

Relatrice Maria Bonaria Urban Correlatore Ronald de Rooij

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Indice

Introduzione

1. Igiaba Scego: vita e opere 1.1. Biografia e opere 1.2 La trama di Adua

1.3 Una breve storia dei rapporti coloniali italo-somali 2. La letteratura postcoloniale

2.1 Una mappatura della letteratura postcoloniale 2.2 L’identità culturale

2.3 La rappresentazione del corpo 3. Colonialismo e corporalità: Adua

3.1 L’esperienza coloniale 3.2 Il ‘mito italiano’

3.2.1. Il sogno di Adua 3.2.2. La delusione di Adua 4. Colonialismo e corporalità: Zoppe

4.1 L’esperienza coloniale 4.2 Il ‘mito italiano’

4.2.1 Il sogno di Zoppe 4.2.1 La delusione di Zoppe

5. Libertà e potere: un discorso di gender e generazioni 4.1 Zoppe e Adua

4.2 Adua e Titanic 6. La memoria

6.1 La macrostoria: Adua e la memoria coloniale italiana 6.2 La microstoria: Adua come alter ego di Igiaba Scego

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Introduzione

“Adua è un pugno nello stomaco, uno di quelli che fa veramente male e che lascia il segno. E non potrebbe essere diversamente.”1

- Giuseppe Fantasia, Huffington Post

La recensione sopracitata dell’Huffington Post sul romanzo Adua di Igiaba Scego non introduce soltanto l’oggetto di analisi di questa tesi, ma sottolinea anche come la lettura di questo romanzo sia un’esperienza quasi fisica.

Attraverso l’analisi del romanzo Adua, questa tesi vuole dare un contributo all’analisi della letteratura postcoloniale, un campo ibrido ancora in movimento. Con il termine ‘letteratura postcoloniale’ italiana si intende quel campo specifico della letteratura che tratta la storia coloniale italiana e la conseguente migrazione in Italia di persone originarie dalla ex colonie italiane. Si tratta di una produzione scritta in italiano da migranti, appartenenti alle ex colonie, specialmente a partire dagli anni Novanta del secolo scorso.2 Questo tipo di letteratura fa parte di quella produzione letteraria che è stata definita letteratura ‘migrante’, un termine non universalmente accettato per la sua ambivalenza, ma che continua ad essere utilizzato e sul quale ormai esiste una vasta letteratura critica.3 In effetti, i primi lavori ‘postcoloniali’ venivano ingiustamente considerati parte dell’allora nascente letteratura migrante. Siccome non c’era ancora una categoria a sé stante, tutta la narrativa prodotta da persone che hanno vissuto l’esperienza spesso traumatica dell’abbandono della madrepatria e il trasferimento in un altro paese veniva considerata ‘migrante’: in questo modo non si teneva però conto dei diversi contesti di partenza e di destinazione e del loro impatto sullo stile e sulle tematiche tratte dagli autori. Gli autori di opere postcoloniali non hanno, per esempio, avuto l’esperienza della scrittura a ‘quattro mani’, cioè non sono stati supportati da un autore italiano nell’elaborazione delle loro prime opere, perché avevano già conoscenza della lingua italiana. Questo fenomeno è invece considerato tipico della prima fase della letteratura migrante.4

1 Giuseppe Fantasia, ‘Adua’ di Igiaba Scego e quel sogno ricorrente di libertà, recensione del Huffington Post 29-09-2015, http://www.huffingtonpost.it/giuseppe-fantasia/adua-di-igiaba-scego-e-quel-sogno-ricorrente-di-liberta_b_8215220.html (consultato: 04-05-2017)

2 Emma Bond & Daniele Comberiati, Il confine liquido. Rapporti letterari e interculturali fra Italia e Albania, Salento Books, Nardò, 2013, p. 19

3 Jennifer Burns, Migrant Imaginaries. Figures in Italian Migration Literature, Peter Lang, Bruxelles, 2013, p. 3-8

4 Emma Bond & Guido Bonsaver & Federico Faloppa (a.c.d.), Destination Italy. Representing Migration in

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Nel suo studio Migrant Imaginaries. Figures in Italian Migration Literature, dedicato alla produzione letteraria degli scrittori migranti dal 1990 ad oggi, Jennifer Burns ha scelto di non dedicarsi allo studio della cosiddetta “seconda generazione” di scrittori, che consiste soprattutto in autori somali-italiani, che sono nati in Italia e sono di madrelingua italiana, in quanto a suo dire ciò richiede un approccio diverso da quello che ha utilizzato nella sua indagine sulle opere degli scrittori migranti che non sono di madrelingua italiana.5 Inoltre, aggiunge la Burns, gli scrittori della seconda generazione hanno già ricevuto abbastanza attenzione critica.

In effetti, è vero che nel corso degli ultimi anni si è dedicata grande attenzione alla letteratura prodotta da autori migranti della seconda generazione, in realtà spesso autrici, come Cristina Ali Farah, Shirin Ramzanali Fazel e Sirad. S. Hassan.6 Eppure, questa tesi dimostrerà perché l’analisi di questa generazione di scrittori non è ancora completa. Prima di tutto, è essenziale fornire una definizione di questa categoria: con scrittori di seconda generazione, intendiamo gli autori che si considerano soggetti con un’identità multipla e che esplorano questo concetto attraverso le loro opere. Una caratteristica che accomuna la loro produzione è la scelta di una protagonista femminile e, di conseguenza, l’approfondimento dell’identità della donna migrante. Questo approccio, spesso caratterizzato dalla presenza di elementi autobiografici, ha lo scopo di fornire una cornice interpretativa “altra” degli eventi e per dar voce a quelle presenze subalterne.7 Perciò, questa scrittura è ormai da tempo oggetto di riflessioni nell’ambito dei gender studies e potrebbe quindi esser considerata meno interessante per una ricerca, come sostiene la Burns.

La scrittrice Igiaba Scego, nata in Italia da genitori somali, costituisce però un’eccezione all’interno del gruppo di autori femminili di seconda generazione che raccontano l’esperienza di una migrante femminile.8 Nel suo ultimo romanzo Adua, la scrittrice racconta, infatti, la storia di un padre e sua figlia, riconoscendo così al padre un ruolo decisivo nella narrazione e alternando i due punti di vista. In questo modo l’esperienza coloniale riemerge attraverso le loro singole esperienze personali e i diversi periodi storici. Il legame di sangue e il tema del gender si traducono dunque nella presenza di un doppio sguardo, quello di una figlia e suo padre, e ciò potrebbe essere un punto di osservazione interessante e nuovo per esplorare sia l’esperienza della migrazione che quella della storia

5 Jennifer Burns, Migrant Imaginaries. Figures in Italian Migration Literature, cit., p. 3-8

6 Clotilde Barbarulli, Scrittrici migranti. La lingua, il caos, una stella, Edizioni ETS, Pisa, 2010, P. 15-20 7 Bernardini, Manfredi, Gabriele Proglio, Memorie oltre confine. La letteratura postcoloniale italiana in

prospettiva storica, in “Between”, 4 (2014), 7, p. 4

8 Daniele Comberiati, La quarta sponda. Scrittrici in viaggio dall’Africa coloniale all’Italia di oggi, Caravan edizioni, Roma, 2011, p. 13-19

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coloniale italiana. La novità del romanzo Adua si trova quindi nell’affiancamento del personaggio e del corpo maschile a quello femminile. Inoltre, attraverso il ruolo di padre, il romanzo racconta la storia coloniale di due periodi diversi, ma allo stesso tempo approfondisce la relazione filiale di due soggetti coloniali che anche fra di loro hanno un rapporto ambiguo. Infatti, il romanzo affronta la storia coloniale e i rapporti di potere fra chi domina e chi viene dominato anche attraverso il rapporto fra un padre e una figlia, che vivono delle esperienze comuni, ma da dei punti di vista diversi. La ricerca cercherà così di valutare come l’esperienza coloniale venga rappresentata non solo seguendo le varie fasi storiche del fenomeno, ma anche esplorando, accanto allo sguardo femminile, quello maschile, che fino ad ora non era emerso con sufficiente forza nella letteratura migrante di ambito italiano.

Inoltre, gli studi critici hanno messo in luce che il concetto di identità ibrida o piuttosto il cosiddetto senso di stare ‘inbetween’9 si esplicita nella letteratura postcoloniale attraverso la rappresentazione del corpo sia come luogo simbolico del conflitto fra

colonizzatore e colonizzato sia come scenario fisico dello scontro fra due culture. Questa strategia narrativa, solitamente applicata al corpo femminile per raccontare l’esperienza della donna migrante, viene usata invece dalla Scego in Adua anche per esplorare l’identità

dell’uomo migrante e, in questo caso, del soggetto coloniale; nel romanzo Adua la scrittrice si serve dunque della rappresentazione della corporalità sia maschile che femminile per

rappresentare l’identità scissa dei due protagonisti.

Questa tesi vuole quindi indagare come viene narrata l’esperienza del colonialismo e dell’essere inbetween attraverso la narrazione di due generazioni e di diversi rapporti di potere tra i protagonisti in particolare mediante la rappresentazione del corpo. Ciò permetterà di mettere a confronto le esperienze del colonialismo dei protagonisti: vedremo che cosa hanno in comune e quali sono le differenze. Quest’analisi sarà contestualizzata nell’ambito degli studi postcoloniali – facendo riferimento specialmente a quelli di Emma Bond e Daniele Comberiati -, inoltre, prende in considerazione anche le ricerche di gender e quelle dedicate all’opera di Igiaba Scego in particolare.

Nel primo capitolo si traccerà un profilo della vita e delle opere di Igiaba Scego, seguita da una esposizione della trama del romanzo Adua. Il capitolo si conclude con una breve parentesi storica dei rapporti tra la Somalia e l’Italia, che aiuta ad addentrarci nel contesto del romanzo.

9 Un termine preso da Homi K. Bhabha. Bernardini, Manfredi, “Gabriele Proglio, Memorie oltre confine. La

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Il secondo capitolo fornirà il quadro teorico che servirà poi per l’analisi del romanzo approfondendo il concetto di identità culturale e le strategie di rappresentazione del corpo nella letteratura migrante, inoltre si collocherà la produzione letteraria della Scego nell’ambito della letteratura postcoloniale, analizzando poi alcune delle caratteristiche del suo lavoro.

Con il terzo capitolo entriamo nel vivo dell’analisi di Adua. Seguendo la struttura del romanzo, nel terzo e quarto capitolo si approfondirà la rappresentazione dei due protagonisti, Adua e Zoppe, e il segno che l’esperienza della colonizzazione ha lasciato in loro. L’analisi si soffermerà sul modo in cui la loro condizione di ‘colonizzati’ e quindi di individui che hanno identità multiple, segni il loro corpo che diventa quindi il luogo fisico e simbolico in cui si manifesta la violenza del colonialismo. L’analisi prenderà in esame il processo di costruzione di questa identità multipla e le sue ripercussioni sul corpo dei personaggi a partire da quella che possiamo chiamare l’assimilazione del “mito italiano” fino alla loro esperienza di soggetti colonizzati nella Somalia occupata e poi di immigrati in Italia. Nonostante la storia di Zoppe cronologicamente dovrebbe esser messa prima, il capitolo terzo è dedicato al personaggio di Adua. Lei è sia la narratrice che la coprotagonista del romanzo, come si evince dal titolo. Nell’analisi terremo presente sia l’evoluzione temporale del fenomeno coloniale in quanto questo personaggio rappresenta la categoria di migranti che è arrivata in Italia negli anni Settanta, che le questioni legate al gender.

Il quarto capitolo avrà la stessa struttura usata nel terzo, ma sarà costruito intorno al personaggio di Zoppe: analizzeremo quindi come la sua esperienza del colonialismo incide nella formazione della sua l’identità culturale e si riflette nelle vicissitudini che segnano il suo corpo. In questo capitolo si terrà presente sia l’evoluzione temporale del fenomeno coloniale che la mascolinità.

Il quinto capitolo, intitolato Storie diverse e storie simili: gender e generazioni, affronterà il tema dei rapporti di potere attraverso le relazioni che si instaurano fra i soggetti africani protagonisti del romanzo. Queste relazioni sono segnate dalle esperienze individuali, ma al contempo si inscrivono nella storia coloniale somala. Questo capitolo affronterà sia i rapporti individuali tra padre-figlia di Zoppe e Adua, che il rapporto tra Adua e Titanic, un giovane migrante contemporaneo, e infine il rapporto degli africani tra di loro.

Il sesto capitolo affronterà il tema della memoria. Vedremo come Adua riesce a costruire una memoria della sua esperienza coloniale, narrando la sua storia e quanto si differenza il suo metodo da quello di suo padre per quanto riguarda la costruzione di una memoria. Il tema della memoria ci permetterà di concludere sul valore metanarrativo del

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romanzo e, quindi, di riflettere, sul peso della storia coloniale nella natura complessa, multiculturale e conflittuale della società italiana contemporanea.

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Capitolo 1: Igiaba Scego: vita e opere

1.1. Biografia e opere

Igiaba Scego vive in Italia dalla sua nascita nel 1974, quando i suoi genitori somali sono fuggiti alla dittatura di Siad Barre. Suo padre è sempre stato politicamente attivo in Somalia, sia come ambasciatore che come ministro degli affari esteri. Dopo la laurea in Letterature straniere e un dottorato di ricerca in Pedagogia, la Scego si è occupata della scrittura e del giornalismo. Il dialogo fra culture, le società multiculturali e la migrazione sono i temi ricorrenti che ispirano la sua opera, sebbene la scrittrice non abbia una propria memoria dell’esperienza della migrazione. Scrive su Internazionale, il supplemento di Repubblica, e su varie riviste che trattano le migrazioni e i diritti umani come Nigrizia e l’Unità. Inoltre ha pubblicato diversi racconti e romanzi.

La sua carriera letteraria è cominciata nel 2003, quando ha pubblicato un libro bilingue per bambini chiamato La nomade che amava Alfred Hitchcock – Ari raacato jecleeyd Alfred Hitchcock, ispirato dalla migrazione di sua madre in Italia. Nel 2004 poi, la Scego ha pubblicato il suo primo romanzo Rhoda, che racconta le storie di cinque protagonisti, un personaggio maschile italiano e quattro femminili, due delle quali immigrate in Italia, dopo esser fuggite dalla guerra civile degli anni Novanta in Somalia. Raccontano delle loro gioie e dei dolori provocati dalle loro identità scisse.10 Nel 2005 ha scritto un’antologia Italiani per vocazione con storie di diversi autori di origine straniera. È diventata però veramente conosciuta solo dopo la pubblicazione di due novelle: Salsicce nel 2003 e Dismatria nel 2005, parte di Pecore nere, un’antologia sulle esperienze di migranti di seconda generazione in Italia, scritto insieme a Gabriella Kuruvilla, Laila Wadia e Ingy Mubiayi. In seguito ha scritto per diverse riviste e pubblicato varie interviste con italiani di origine africana, come Quando nasci è una roulette: Giovani figli di migranti si raccontano. Nel 2008 ha dato alle stampe il romanzo Oltre Babilonia, che parla di cinque protagonisti: due madri, due figlie e un padre in comune, che raccontano ognuno a sua volta la propria storia; come nel suo primo romanzo Rhoda, anche Oltre Babilonia è dunque strutturato a capitoli alternati. Nel 2010 poi, la Scego ha pubblicato un romanzo di stampo autobiografico intitolato La mia casa è dove sono, che ha ricevuto il premio Mondello per poi essere integrato in un manuale scolastico nel 2012.

10 Francesca Chiarla, Recensione “Rhoda” di Igiaba Scego, Letteranza, 30-07-2007,

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Descrive la storia di una famiglia dispersa tra la Somalia, la Gran Bretagna e l’Italia. La Scego è apparsa inoltre nel film La pecora nera di Ascanio Celestini e ha continuato a scrivere. Tra i suoi lavori di non fiction, si ricorda Roma negata, un volume redatto con Rino Bianchi nel 2014 in cui si descrivono alcuni percorsi postcoloniali nella città, affrontando diversi temi della storia coloniale italiana. Nel 2015 è uscito il suo ultimo romanzo, Adua.

1.2 La trama di Adua

Il romanzo Adua è il ritratto – come capiamo già dalla copertina - di una donna di origini somale. Nel romanzo si alternano due voci, un padre e sua figlia, che raccontano la loro esperienza della storia coloniale italiana. Da un lato narra Adua, ormai una donna matura, immigrata dalla Somalia in Italia a diciassette anni, durante gli anni Settanta, in cerca di se stessa. Dall’altro lato, il padre Zoppe, come ultimo discendente di una famiglia di indovini, lavorava come interprete durante il regime e negli anni Trenta baratterà involontariamente la sua libertà con la libertà del suo popolo.

Adua ha da poco sposato un giovane Titanic, immigrato sbarcato a Lampedusa, con cui ha un rapporto ambiguo, fatto di tenerezze e rabbie improvvise. Decide di confidarsi con la statua dell’elefante di Bernini che sorregge l’obelisco in piazza Santa Maria sopra Minerva e che le ricorda le sue origini. All’elefante racconta la sua storia e quella di suo padre Zoppe. Adua stessa, fuggita dai rigori paterni e dalla dittatura in Somalia, era approdata a Roma inseguendo il miraggio del cinema, facendo però alla fine un film pornografico, che sarà fonte di umiliazione e vergogna. Quando la guerra civile in Somalia finisce e suo padre muore, Adua eredita la sua casa di famiglia e si trova davanti alla possibilità di fare il viaggio di ritorno: non solo per recuperare la sua eredità ma anche la sua identità, le sue storie e, soprattutto, il suo futuro. Dalle vicende si coglie l’amore che sia il padre che la figlia provano per l’Italia, ma i due personaggi offrono una visione diversa ed emotiva della Storia e del tema attualissimo dell’immigrazione.

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1.3. Una breve storia dei rapporti coloniali italo-somali

Dopo l’Unificazione dell’Italia avvenuta nel 1860, l’allora ministro presidente Francesco Crispi, con l’idea di creare un impero italiano, cominciò a invadere il territorio somalo negli anni Ottanta del diciannovesimo secolo, per poi conquistarlo definitivamente nel 1889 e in seguito conquistare l’Eritrea l’anno successivo.11

Conquistò territori con l’annessione della Tripolitania e Cirenaica, due grandi regioni della Libia, nel 1912. Le truppe fasciste si instaurarono inoltre a Mogadiscio, la capitale della Somalia e nelle zone limitrofe della città, portando “notevole sviluppo”.12 Nel 1925 Mussolini ebbe come priorità la stabilizzazione del territorio africano, che perseguì attraverso una strategia militare repressiva che portò alla conquista della colonia libica nel 1935. Inoltre, nel 1936, proclamò la nascita dell’‘Africa Orientale Italiana’ (AOI), un territorio che comprendeva la Somalia e l’Etiopia. A questo venne aggiunto in seguito l’Eritrea e poi l’Oganden, più conosciuto come Somalia Abissina. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia nella seconda guerra mondiale, nel 1940 le truppe italiane occuparono la Somalia britannica (nord) – o Somaliland – che fu amministrativamente incorporata nella Somalia italiana (centro e sud). Successivamente, le truppe inglesi a loro volta occuparono nel 1941 tutta la Somalia italiana e riconquistarono anche il Somaliland. In seguito alle enormi perdite e alla carenza di risorse subite dall’Italia nel corso della seconda guerra mondiale, fu infine col Trattato di Parigi del 1947 che l’Italia abbandonò il sogno di creare il suo impero e ritirò le truppe. Da lì in poi l’Italia entrò nel periodo postcoloniale, che si svolse però in maniera atipica rispetto agli altri paesi colonizzatori.13 La Libia ottenne l’indipendenza e l’Eritrea fu proclamata stato autonomo federato all’Etiopia. Solo la Somalia (la parte centrale e il sud) rimase sotto amministrazione fiduciaria italiana dal 1950 fino al 1960. Successivamente, le due regioni furono unite nella Repubblica di Somalia. Nel corso di questi anni l’Italia sostenne il movimento nazionalista, ‘Somali Youth League (SYL)’, caratterizzato da una ideologia mista di tradizionalismo, etnicità e modernismo, col processo di costruzione dello stato.14

Quando morì il Presidente somalo e la Somalia si trovò sull’orlo della guerra civile, con il Somaliland che chiese la sua indipendenza dal resto del paese, venne fatto un colpo di

11 Norma Bouchard, Reading the Discourse of Multicultural Italy: Promises and Challenges of Transnational

Italy in an Era of Global Migration, in “Italian Culture”, 18 (2010), 2, p. 107-109

12 Sito ministero della difesa,

http://www.carabinieri.it/arma/oggi/missioni-all%27estero/vol-ii-1936---2001/parte-i/1950---1958/in-somali, consultato 05-05-2017

13 Norma Bouchard, Reading the Discourse of Multicultural Italy, cit., p. 107-109

14 Giampaolo Calchi Novati, Italy and Africa: how to forget colonialism, in “Journal of Modern Italian Studies”, 13 (2008), 1, p. 45-46

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stato sotto la guida di Mohammed Siad Barre, un comandante in capo con un’ideologia marxista, che rovesciò il movimento SYL. Diventò dittatore e ‘governò’ tra il 1969 e il 1991. La sua “Seconda Repubblica”, come la chiamava lui, aveva carattere autoritario: prevedeva l’esistenza di un unico partito, ma anche un sistema di ‘uguaglianza’ con cure mediche e istruzione scolastica gratuite per tutto il popolo. Siad Barre cercò di reprimere, anche esercitando la violenza, il dissenso interno. Eppure mantenne un ottimo rapporto diplomatico con l’Italia, tanto che il Presidente del Consiglio Bettino Craxi, decise di finanziare una cifra enorme al regime di Siad Barre, per l’armamento dell’esercito somalo, che nel 1977 invase l’Etiopia, e per le infrastrutture del paese.15 Come disse Siad Barre stesso al governo italiano: “avete la responsabilità storica di assumere la difesa del nostro Paese”.16 La ribellione interna crebbe però e nel nord del paese si sviluppò un movimento di liberazione somalo, grazie anche ai finanziamenti dell’Etiopia. Siad Barre continuò a sedare la rivolta e le sue misure divennero sempre più sanguinose – fece strage di civili con più di 50 000 morti fra il 1988 e il 1990 e bombardò la città di Hargheisa nel 1991 - risultando in un’altra guerra civile finché nel 1991 Siad Barre venne destituito.17

Dalla caduta del dittatore, vi sono stati molti tentativi di ristabilire un governo efficace, ma a tutt’oggi non è stato raggiunto un accordo nelle conferenze di pace né nominato nessun leader nazionale. Con la caduta di Siad Barre, fu diminuita anche l’influenza italiana in Somalia, nonostante i diversi ‘governi’ abbiano cercato la cooperazione italiana per entrare, economicamente, nel mercato globale. Rimane comunque un paese molto instabile, che regolarmente è stato scenario di interventi militari internazionali.18 In questo momento, il paese è tenuto in scacco da Al-Shabaab, un gruppo radicale islamico, che ha conquistato gran parte del paese e opprime il popolo, esercitando delle punizioni indegne per chi non ubbidisce. L’esercito somalo lo combatte insieme all’esercito dell’Unione Africana, violando però anche i diritti dell’uomo.

La maggior parte dei somali cerca rifugio in altri paesi, come l’Italia, che resta la destinazione preferita, proprio perché la Somalia era ovviamente stata molto influenzata dall’Italia nel periodo dell’occupazione e anche sucessivamente. Il paese fu in costante dialogo con le tradizioni e con i modi di vivere italiani. La vicinanza tra i paesi si manifesta

15 Pietro Veronese, Craxi ha firmato l’accordo 550 miliardi alla Somalia, La Repubblica, 24 settembre 1984,

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/09/24/craxi-ha-firmato-accordo-550-miliardi.html, consultato 04-05-2017

16 Pietro Veronese, Craxi ha firmato l’accordo 550 miliardi alla Somalia, La Repubblica, 24 settembre 1984,

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/09/24/craxi-ha-firmato-accordo-550-miliardi.html, consultato 04-05-2017

17 Giampaolo Calchi Novati, Italy and Africa: how to forget colonialism, cit., p. 46-48 18 Ivi, p. 48-50

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non solo nell’eredità coloniale e al livello linguistico ma anche al livello culturale e in parte politico. Come si è detto, il processo di decolonializzazione ha sostituito il regime coloniale con un regime nazionale, che in tanti aspetti significava, secondo gli studiosi Ahad e Gerrand (2004) soltanto un passaggio di potere.19

A livello culturale, tanti Somali hanno ricevuto un’educazione italiana, parlano anche fra di loro in italiano, seguono la cultura italiana nella forma del cinema, musica e letteratura. Inoltre, le cariche pubbliche venivano spesso rivestite da somali che avevano goduto di un’educazione italiana, come il padre di Igiaba Scego.20

Stranamente l’influenza somala in Italia è molto inferiore: anzi, la Somalia è quasi sconosciuta in Italia.21 Ciò è ancora più sorprendente se teniamo in mente l’enorme flusso di migranti somali verso l’Italia dagli anni Settanta e Ottanta ad oggi.22

19 Lidia Curti, Female literature of Migration in Italy, in “Feminist Review”, 87 (2007), p. 63 20 Ivi, p. 64

21 Ibidem, p. 64

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Giampaolo Calchi Novati, Italy and Africa: how to forget colonialism, cit., p. 54-55 + Vladimiro Polchi,

Migranti, un anno da 200mila sbarchi: ecco il nuovo piano del Viminale, in “La Repubblica”, 9 maggio 2017

http://www.repubblica.it/cronaca/2017/05/09/news/migranti_un_anno_da_200mila_sbarchi_ecco_il_nuovo_pian o_del_viminale-164974039/, consultato: 19-06-2017

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Capitolo 2: La letteratura postcoloniale

In questo capitolo sarà fornita una mappatura della letteratura postcoloniale. Tratteremo a volo d’uccello lo sviluppo di questa narrativa nel corso degli ultimi anni e le caratteristiche sia degli autori ‘postcoloniali’ che delle opere postcoloniali. Poi saranno approfonditi due temi che svolgono un ruolo centrale in questa tesi; il primo è l’identità culturale e il secondo è la rappresentazione del corpo. Entrambi saranno prima analizzati nell’ambito della letteratura migrante e coloniale e poi approfonditi nel contesto della produzione letteraria della Scego.

2.1 Una mappatura della letteratura postcoloniale

Il saggio The Decentred Gaze of Postcolonial Literatue on Italians Past and Present di Maria Grazia Negro ci offre una mappatura sintetica della letteratura postcoloniale. La prima categoria individuata dalla studiosa consiste nelle prime autobiografie risalenti agli anni Novanta del secolo scorso. Questa narrativa veniva considerata parte della nascente letteratura migrante a causa dei temi autobiografici che avevano in comune con i testi scritti dagli immigrati giunti in Italia, come Pap Khouma e Oreste Pivetta, e semplicemente perché non veniva ancora considerata una vera e proprio categoria.23 Consisteva in realtà in una serie di opere scritte soprattutto da autori che avevano conoscenza dell’italiano già prima dell’arrivo in Italia, o perché venivano da ex colonie o perché era una lingua parlata dai genitori. L’italiano di questi testi era fluente, classico, privo di errori. Come è già stato accennato nell’introduzione, queste prime autobiografie venivano considerate ingiustamente parte dell’allora crescente letteratura migrante. C’era però una differenza tra i lavori dei migranti che spesso venivano coadiuvati da un autore o un giornalista italiano, e le autobiografie di migranti ‘postcoloniali’, che avevano quindi una buona padronanza della lingua e non avevano bisogno di un coautore. Le opere rientranti in questa seconda categoria ‘postcoloniale’ raccontavano l’esperienza dell’immigrato in prima persona e mettevano in luce in particolare il razzismo pervasivo degli italiani. La scrittrice somala Shirin Ramzanali Fazel, nominata nella introduzione, rappresenta una delle autrici di questa categoria. Secondo Fazel, gli italiani sono incapaci di mettere lo straniero allo stesso livello riconoscendo la sua

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competenza linguistica. Aggiunge che trova l’ignoranza geografica ed etnografica degli italiani veramente sconvolgente, per non parlare dell’ostilità e l’arroganza verso i cittadini ‘di colore’.24

La seconda fase indicata da Negro è caratterizzata dalla raggiunta maturazione stilistica e tematica di questi autori e dalla conseguente sparizione del ruolo del co-autore. Un’altra differenza rispetto alla prima fase consiste nell’ampiamento dell’arco temporale affrontato nelle opere, che non si limitano più esclusivamente alla rappresentazione del periodo coloniale. In questa categoria di romanzi rientra, per esempio, l’opera Regina di fiori e di perle, della scrittrice italoetiope Gabriella Ghermandi, che per prima ha riscritto la storia della violenta occupazione italiana in Etiopia dal punto di vista della popolazione dominata.25 Durante gli anni Novanta nascono anche specifici premi letterari per le opere migranti e riviste esclusivamente dedicate al tema della migrazione. Anche in questa fase ritroviamo nei testi l’accusa degli italiani per la loro arroganza, il senso di superiorità, l’ignoranza storica e geografica, l’incapacità di mettere lo straniero allo stesso livello riconoscendo la sua competenza linguistica e il razzismo. Possiamo però distinguere anche qualche novità in questa nuova fase: per la prima volta troviamo, per esempio, un’accusa verso gli italiani contemporanei, ma ancora più notevole è, secondo la Negro, il fatto che per la prima volta siano resi espliciti i legami profondi dell’Italia con le sue ex colonie. Secondo la studiosa la rimozione dell’esperienza coloniale da parte degli italiani contemporanei è una strategia per distanziare maggiormente la coscienza collettiva dalla memoria dell’emigrazione italiana del passato.26

La terza e ultima fase identificata dalla Negro comprende la produzione letteraria dal 2010 in poi. Sia Shirin Ramzanali Fazel, menzionata nella introduzione, che Igiaba Scego, entrambi scrittrici di seconda generazione, sono rappresentanti di questa ultima fase, caratterizza dalla rivendicazione esplicita della propria identità ibrida. Questi scrittori di seconda generazione sentono certamente anche loro una forma di nostalgia del proprio paese, ma, da migranti nati e cresciuti in Italia, la rielaborano in modo diverso, trasmettendo un’emozione diversa a causa di un legame con un passato e un altrove spesso sconosciuti e, in generale, non vissuti quotidianamente: non si parla infatti di “ritorni al paese” d’origine, perché è in Italia che questi autori sono nati. La persona che porta in sé o che ha in sé due identità e che vive questa esperienza dell’identità multipla non desidera più entrare in dialogo

24 Ivi, p. 258-61 25 Ivi, p. 162-163 26 Ivi, p. 161-166

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con la società italiana, ma invece contrapporsi a essa nel senso che sia passato il tempo della discussione. Secondo la Negro, il divario tra gli ex colonizzati e gli ex colonizzatori rimane ancora incolmabile. Perfino con degli italiani aperti è impossibile avere un dialogo a causa del loro bisogno di classificare il popolo colonizzato secondo le loro categorie ideologiche e il modo in cui vedono il mondo. L’identità degli ex colonizzati non viene quindi più negoziata con la società italiana con lo scopo di trovare un senso di un’appartenenza, ma viene orgogliosamente reclamata opponendosi provocatoriamente alla chiusura di quella stessa società. Ciò si traduce nel fatto che gli scrittori postcoloniali sottolineano il passato migrante degli Italiani e la loro abilità di includere altri popoli – come arabi, normanni, francesi austriaci, ecc. - nella loro identità nazionale e lo fanno spesso attraverso l’uso dell’ironia come strumento della critica.27 Così svelano le contraddizioni e le storture della società, ridendoci su. Le tematiche che tornano anche in questa fase sono sempre l’ignoranza del passato coloniale e la rappresentazione degli Italiani come dei razzisti.28

2.2. Identità culturale

Negli anni Novanta del secolo scorso, il tema dell’identità è stato oggetto di notevole attenzione nelle riflessioni culturali. Dopo l’esperienza della migrazione dalle ex colonie e la fine della Guerra Fredda – che avevano generato importanti flussi migratori anche verso l’Italia, il tema dell’identità acquistò nuovo rilievo in tanti campi di studio, tra cui quello letterario. I flussi migratori implicavano una convivenza tra diversi popoli, spesso non egualitaria. Guardando più nello specifico i casi degli scrittori postcoloniali, ciò faceva sorgere nell’ ex colonizzato, come risultante dall’interazione con altre identità e dall’esperienza della migrazione, un’identità più complessa, frutto dell’inevitabile confronto con soggetti portatori di identità diverse dalla propria. Ovviamente la stessa cosa vale per gli ex colonizzatori, costretti a confrontarsi con flussi migratori dalle ex colonie e con la loro identità nazionale. È in questo contesto che si posero le basi per una ridefinizione dell’io individuale e collettivo.29

27 Daniele Comberiati, La quarta sponda, cit., p. 74-75 28 Emma Bond & et al., Destination Italy, cit., p. 266-269

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Nella letteratura ciò si è tradotto in una produzione migrante e postcoloniale, in cui si affronta il tema dell’identità culturale e, in particolare, la condizione di inbetweenness del soggetto, che vive tale identità ibrida come una scissione dell’io.30

Lidia Curti nota come le opere della Scego ed altre scrittrici postcoloniali dimostrino pochissima nostalgia per il paese d’origine; le scrittrici interrogano piuttosto le loro vite e le peculiarità della vita italiana e del significato di essere ‘a casa’, ponendo anche il tema scomodo del ritorno ‘a casa’.31 Descrivono un mondo tra modernità e tradizioni con, da un lato, un riferimento costante alla gioventù di cultura cosmopolita con la sua musica, i suoi film e i media e, dall’altro lato, uno sguardo ironico rivolto alle abitudini ed usi tradizionali.32 Il fatto di stare inbetween si traduce così nella ricerca di se stessi, nella formazione di un’identità del proprio io.33

Osservando più nello specifico le caratteristiche del lavoro della Scego, notiamo che il razzismo è una tematica ricorrente, in quanto è una condizione sperimentata in generale dalle persone che abbandonano il proprio paese o sono considerate straniere nel paese ospitante. La razza e il razzismo, insieme al confronto con ‘l’altro’, erano in effetti i primi temi affrontati all’indomani della decolonizzazione, prima negli studi storiografici e successivamente anche nella letteratura migrante.34

La ragione per cui la Scego ha scelto questo tema come elemento ricorrente nelle sue opere è che lei stessa, nata in Italia, è stata vittima di razzismo. In un’intervista la scrittrice ha raccontato di dovere affrontare i peggiori insulti, soprattutto a scuola come ragazzina.35 Quest’esperienza di mancata integrazione in Italia l’ha portata alla ridefinizione della propria identità, spingendola a desiderare di essere come gli altri Italiani, con una pelle bianca, rinnegando così la Somalia, il paese delle sue origini culturali. Dice che ha voluto portare alla luce questo aspetto anche nei suoi lavori, inserendolo ad esempio nell’introduzione al libro per ragazzi, La nomade che amava Alfred Hitchcock:

30 Emma Bond & et al., Destination Italy, cit., p. 256-269 31 Lidia Curti, Female literature of Migration in Italy, cit., p. 69 32 Ivi, p. 70

33 Emma Bond & et al., Destination Italy, cit., p. 230-239

34 Giulietta Stefani, Colonia per maschi, Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, Ombre corte, Verona, 2007, p. 20-21

35 Igiaba Scego, Relazioni di Igiaba Scego, in “Relazioni sull’intercultura”, 2004,

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“La Somalia è stata una meteora nella mia vita. Essendo nata in Italia all’inizio non riuscivo proprio a capire che fosse questa Somalia e francamente ne avevo molta paura. Avevo sviluppato una fantasia personale sul mio paese d’origine: credevo fosse un paese rosso, una sorta di Marte terrestre. Fu grande la mia delusione quando, all’età di 8 anni, mi accorsi che la Somalia non era rossa come Marte, ma aveva gli stessi colori dell’Italia. La delusione iniziale durò un attimo. Infatti scoprii che la Somalia era un paese meraviglioso dove l’uomo poteva vivere felice in simbiosi con la natura. Adoravo (e adoro) la mia bella Roma, ma Mogadiscio mi ha dato l’opportunità di recuperare le mie radici e di ampliare il mio orizzonte culturale.”36

La sua esigenza di riflettere sul razzismo si riflette quindi nelle sue opere, nelle quali vuole sottoporre ai suoi lettori la sua condizione di soggetto inbetween, che vive in modo problematico questo senso di appartenenza: esclusa dalla comunità italiana, pur essendo esser nata in Italia e sentendosi in primo luogo italiana.

Scego ha rielaborato la sua visione sul razzismo in modo esemplare nell’opera Salsicce37, in cui il cibo, simbolo identitario, diventa una strategia narrativa per affrontare il discorso dell’identità culturale.38 Nella rappresentazione della casa, la cucina svolge un ruolo centrale e con ciò il cibo, che viene usato dalla Scego pur sempre come luogo e simbolo di scontri cruciali. Le salsicce rappresentano un cibo particolare, l’emblema dell’integrazione nella cultura italiana. Ecco perché alla fine, la protagonista musulmana decide di comprarle e mangiarle, giusto per tentare di essere ‘tutt’uno’ col suo paese, nonostante le salsicce le provochino addirittura reazioni fisiche.39

La reazione fisica della protagonista è esemplificativa di una strategia narrativa ricorrente nell’opera della scrittrice: attraverso il corpo la Scego rappresenta l’esperienza dell’identità culturale, che quindi viene vissuta in maniera problematica. L’identità musulmana viene messa in crisi con una questione legata al cibo, esempio della cultura italiana. Si sente costretta a mangiare le salsicce per poter fondere la sua parte ‘italiana’ con la sua parte ‘musulmana’. Il suo corpo che rifiuta le salsicce rappresenta in questo caso la sua identità d’origine, che non mangia la carne suina. Dal fatto che costringe il suo corpo comunque a mangiare la salsiccia capiamo come nega la sua identità somala per riconoscersi nell’identità italiana.

Il racconto Salsicce è dunque esemplificativo del modo in cui la Scego, similmente ad altre scrittrici postocoloniali e migranti, usa la rappresentazione del corpo per veicolare la sua

36 Igiaba Scego, La nomade che amava Alfred Hitchcock, Sinnos, Roma, 2003, p. 9 37 Lidia Curti, Female literature of Migration in Italy, cit., p. 71

38 Daniele Comberiati, La quarta sponda, cit., 76-78

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visione sull’identità culturale e in questo modo mette in luce la falsità del mito del Bel Paese.40

Un’altra strategia ricorrente nel lavoro della Scego per affrontare il tema dell’identità è la struttura a più voci femminili che la scrittrice solitamente usa nelle sue narrazioni. Ciò emerge, come abbiamo detto in precedenza, in Rhoda (2004), Oltre Babilonia (2008), La mia casa è dove sono (2010), Adua (2015) e Dismatria (2005). Tutte queste opere forniscono quindi un esempio di famiglie e storie costruite soprattutto da donne. Anche questa è una caratteristica che ritorna in generale nella letteratura postcoloniale e risponde quindi a modelli narrativi consolidati.41

Esiste tuttavia qualche eccezione a riguardo anche nella produzione della Scego: un esempio è La strana notte di Vito Renica, leghista meridionale, un racconto scritto per la rivista El-ghibli, che ha invece come protagonista un uomo italiano. Racconta la storia di un immigrante proveniente dal Sud che diventa membro del partito di estrema destra, la Lega Nord. Questa scelta particolare della Scego vuole certamente fare riflettere gli italiani sul distacco tra il Nord e il Sud, anche all’interno del paese, e sulla diffidenza nei confronti di coloro che sono ‘appena arrivati’. In fin dei conti sono tutte storie in cui gli Italiani si vedono confrontati con ‘l’altro’, indipendentemente dalle origini precise di quest’ultimo. In questa maniera conoscono se stessi e lo scopo è ovviamente quello di fare integrare queste rappresentazioni dell’altro nella cultura e letteratura italiana, rendendole parte integrante della Storia e memoria italiana.42 Anche in Rhoda e Oltre Babilonia compare la voce di un personaggio maschile. Nel caso di Rhoda troviamo la figura di Pino, un giovane napoletano che cerca di redimere le prostitute.43 In Oltre Babilonia si tratta di un padre, che ha un ruolo minore tra più voci femminili. La storia è comunque basata su un rapporto di madre-figlia e ha come temi principali la femminilità e il rapporto con il corpo.44

La narrazione a più voci viene amplificata dalla scelta di personaggi di diverse generazioni appartenenti alla stessa famiglia. Rhoda rappresenta un caso emblematico di un’opera a più voci e storie parallele di personaggi femminili appartenenti a generazioni diverse. Il romanzo è composto da cinque parti più un epilogo, nelle quali i narratori

40 Emma Bond & et al., Destination Italy, cit., p. 230-239 41 Daniele Comberiati, La quarta sponda, cit., p. 69-86

42 Lidia Curti, Female literature of Migration in Italy, cit., p. 72 43 Igiaba Scego, Rhoda, Sinnos, Roma, 2005

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riprendono ogni volta una sequenza narrativa da un loro punto di vista.45 Nell’impostazione di Adua ritroviamo questa stessa struttura di storie parallele e più voci.

Se le strategie finora descritte avvicinano la Scego ad altre voci della letteratura postcoloniale e migrante, la scrittrice ci offre con il romanzo Adua una variante originale del romanzo postcoloniale. Come abbiamo detto, infatti, in Adua compare una figura maschile che si affianca al ruolo della protagonista femminile; la costruzione di questo personaggio passa anche attraverso la rappresentazione della sua mascolinità dominante e vittima al contempo del colonialismo, rappresentando uno degli elementi più originali dell’opera.

La figura maschile è stata esaminata nella ricerca psicanalitica di Sigmund Freud, attraverso il suo ruolo nella società occidentale. Secondo Freud, la contestualizzazione del ruolo aiuta a spiegare certi pensieri, comportamenti e impulsi sessuali. Secondo il pensiero freudiano, il maschio non può essere visto separatamente dal suo ruolo di capofamiglia.46 Non è questa la sede per entrare nel campo della psicanalisi, ma per affrontare la figura del padre nel romanzo bisogna prendere in considerazione la mascolinità, cioè l’immagine del maschio nel modello culturale occidentale. L’immagine del maschio come figura autoritaria, potente, di capofamiglia, era stata rafforzata e amplificata nell’ideologia fascista attraverso l’identificazione dell’uomo con una figura coraggiosa ed eroica, che non temeva le avventure, le conquiste e le battaglie in posti lontani, abilmente in linea con gli obiettivi dell’imperialismo.47

La scelta della Scego di dare spazio alla figura del padre nel romanzo Adua, può probabilmente essere spiegata alla luce dell’attenzione minima dimostrata a riguardo nella letteratura postcoloniale.48 Il legame tra il tema dell’identità e il ruolo del padre, che si esprime anche attraverso il corpo paterno, rappresenta comunque un aspetto di grande rilievo per esplorare sia l’esperienza coloniale che la formazione di un’identità culturale.49

In conclusione, possiamo dire che in reazione ai flussi migratori degli anni Novanta in poi, il tema dell’identità ha ottenuto una crescente attenzione in diversi campi di studio. Così anche nella letteratura, l’identitàe, in particolare, la riflessione sulla condizione di inbetweenness e l’esperienza traumatica della colonizzazione sono diventati argomenti

45 Igiaba Scego, Rhoda, Sinnos, Roma, 2005

46 Frans Stortelder, Varieties of Male-Sexual-Identity Development in Clinical Practice: A Neuropsychoanalytic

Model, in “Frontiers in Psychology”, 5, 2014 + Anna-Leena Troivanen, Daddy’s Girls? Father-Daughter Relations and the Failures of the Postcolonial Nation-State in Chimamanda Ngozi Adichie’s Purple Hibiscus and Véronique Tadjo’s Loin de mon père, in “Ariel”, 44, (2013), 1, p. 102-105

47 Giulietta Stefani, Colonia per maschi, cit., p. 20-23 48 Emma Bond & et al., Destination Italy, cit., p. 257-269

49 Emma Bond & et al., Destination Italy, cit., p. 256, 257-269 + Emma Bond & Daniele Comberiati, Il confine

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ricorrenti nella produzione romanzesca. La Scego ha affrontato queste tematiche facendo ricorso a strategie consolidate nella letteratura postcoloniale ma nel suo ultimo romanzo allarga ulteriormente lo spettro della sua indagine attribuendo un ruolo da protagonista alla figura paterna e affrontando il suo trauma di ex colonizzato attraverso una rappresentazione violenta e contraddittoria della sua mascolinità.

Il corpo si conferma dunque, come vedremo nel prossimo paragrafo, come un luogo simbolico privilegiato per affrontare il tema dell’identità e la decostruzione del colonialismo.

2.3. La rappresentazione del corpo

Nella letteratura sulla migrazione postcoloniale è stato messo in luce come il discorso sull’identità culturale passi attraverso la rappresentazione del corpo. Con ciò intendiamo la strategia narrativa di esprimere lo stato d’animo dei protagonisti attraverso la manifestazione di sentimenti ed emozioni espressi dal corpo. A parte le manifestazioni che sono inerenti al corpo stesso, come il processo fisico di trasformazione e maturazione, il corpo può essere usato come il terreno dove si articolano tensioni personali, sociali, politiche e internazionali.50 Il corpo offre sia all’autore che al lettore uno strumento che, facendolo diventare ‘testo’, è allo stesso tempo passivo e attivo.51 Ciò significa che il concetto di corporalità nella letteratura non svolge soltanto un ruolo illustrativo, ma, come afferma Emma Bond, può anche confutare e giocare con delle aspettative e pregiudizi intorno alle categorie d’identità e allo stesso momento ovviamente servire come strategia narrativa specifica.52 Anche la Bond, come Anita Pinzi, è dell’opinione che il corpo possa quindi esser visto come uno strumento duplice: da un lato, riceve ed è soggetto di percezione e, dall’altro lato, trasmette informazioni e può influenzare questa percezione. Inoltre, aggiunge la Bond, il corpo può rappresentare e generare un sentimento di essere “a casa”.53

Un’altra studiosa che si è occupata della corporalità, focalizzandosi però sullo sviluppo del femminismo come fenomeno storico, è Elisabeth Grosz, la quale nei suoi testi Volatibile Bodies (1994) e Space, Time and Perversion (1995), considera la differenza

50 Anita Pinzi, Corpi-cerniera: corpi di donna in Il paese dove non si muore mai di Ornela Vorpsi, in Il confine

liquido. Rapporti letterari e interculturali fra Italia e Albania, Salento Books, Nardò, 2013, p. 167

51 Ibidem

52 Emma Bond & et al., Destination Italy, cit., p. 243 53 Emma Bond & et al., Destination Italy, cit., p. 255-256

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sessuale e la corporalità come elemento fondativo del soggetto.54 Mentre la Pinzi faceva una distinzione tra il lato “passivo” e il lato “attivo” del corpo, e la Bond faceva una distinzione simile chiamandola però la duplicità del corpo, risultante dalla somma dell’atto del ricevere e di quello del trasmettere, la Grosz, invece, affronta il corpo in maniera diversa. Usa due concetti: il “lived body” e l’“inscriptive body”.55 Il primo è un approccio allo studio del corpo che si riferisce all’esperienza vissuta, l’iscrizione interna e psichica del corpo, mentre il secondo concepisce il corpo come una superficie sulla quale si inscrivono leggi sociali, moralità e valori.56 Secondo la studiosa però non esiste né separazione né sintesi tra i due approcci, il che vuol dire che entrambi sono necessari per teorizzare la corporalità. In altre parole, Grosz ritiene ci sia una distinzione tra la parte interiore - lo stato profondo del corpo - e la parte esteriore (socio-politica), la quale rappresenta la superficie che viene ‘letta’ attraverso tracce concrete, come l’abbigliamento, i tatuaggi, i gioielli, le ferite o gli atteggiamenti.57 Per tutte le studiose citate vale comunque che le due parti dialogano attraverso il corpo. Molte delle riflessioni sul corpo nella letteratura di genere e postcoloniale si concentrano finora in particolare sul corpo femminile, considerato più fragile e vulnerabile dei corpi maschili, proprio perché demarcato in termini sia di genere che di nazionalità. I corpi femminili sono quindi doppiamente esiliati nel processo della migrazione.58 Se seguiamo la linea di ragionamento proposta dalla scrittrice e artista Ornela Vorpsi nelle sue opere, poi teorizzata negli studi di Emma Bond, la donna (migrante) viene rappresentata soprattutto come un oggetto desiderato. Ciò significa che la sua immagine dominante è esplicitamente di carattere sessuale.59 La Vorpsi si è occupata della rappresentazione del corpo femminile nella raccolta Bevete cacao Van Houten!, sottolineando come la bellezza è un dono che richieda gestione e prudenza, in quanto viene sottomessa alle esigenze prevalenti del potere.60 Particolare attenzione nella riflessione della Vorpsi ha anche il tema degli adattamenti tentati dalle donne per poter corrispondere al modello di bellezza imposto dallo sguardo maschile, come il trucco, i tacchi, i vestiti e le sottovestiti fino alla chirurgia plastica. Tutto ciò conferma, secondo la scrittrice, come ricordano anche Bond e Grosz, l’immagine desiderata della donna: dove la natura non ha dato il meglio, la chirurgia plastica rimedia.

54 Anita Pinzi, Corpi-cerniera, cit., p. 167-168 55 Anita Pinzi, Corpi-cerniera, cit., p. 168 56 Ibidem

57 Ivi, p. 169 58 Ivi, p. 167-169

59 Emma Bond, Il corpo come racconto: arte e mestiere nell’Educazione siberiana di Nicolai Lilin e Bevete

cacao Van Houten! Di Ornela Vorpsi, in Transkulturelle italophone Literatur, Martha Kleinhans & Richard

Schwaderer, Köningshausen & Neumann, Würzburg, 2013, p. 320

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Questi adattamenti sono frutto di modelli culturali e sono assolutamente a-storici perché, come dice giustamente la Grosz, la sottomissione della donna al potere è un fenomeno che non ha età.61

Nonostante il romanzo della Scego parli di una storia e un contesto completamente diversi da quelli raccontati dalla Vorpsi, potremmo comunque ipotizzare delle somiglianze nella rappresentazione della donna nelle opere delle due scrittrici. Entrambe affrontano la femminilità seguendo, da un lato, la doppia traccia del predominio politico, che nel lavoro della Vorpsi è il comunismo, e, dall’altro, dello sguardo maschilista. Nel caso di Adua abbiamo inoltre a che fare con un’ulteriore dimensione, cioè quella della donna nera. Nell’epoca coloniale, il corpo della donna di colore era il simbolo di bellezza sessualizzata: rappresentava il luogo di interazione, o meglio, di scontro, tra i colonizzati e i colonizzatori. Alla fine, la conquista dell’Africa non offriva soltanto un territorio ma anche un accesso illimitato allo sfruttamento sessuale delle donne locali. Queste donne venivano rappresentate, riprendendo un’espressione di Sandra Ponzanesi, come delle “Veneri nere” (“black venuses”).62 La protagonista Adua rappresenta ovviamente non soltanto la donna intesa come inferiore allo sguardo maschile, ma incarna anche il modello della bellezza esotica per gli italiani.

Gli studi che si occupano della corporalità, come quelli appena citati, si limitano spesso allo studio del corpo femminile. Tra gli scarsi riferimenti al corpo maschile troviamo quello ricorrente alla potenza fisica e la sua virilità, per cui l’uomo viene rappresentato come portatore del seme che feconda la femmina e permette la riproduzione. Storicamente il corpo maschile veniva visto come il genere più potente.63 Quest’immagine è stata ampiamente confermata durante il colonialismo e il fascismo. Prendendo spunto dal lavoro di Loredana Polezzi, che ha studiato le rappresentazioni visuali degli africani e degli esploratori durante il colonialismo italiano, troviamo come gli italiani si autorappresentavano. Già nei diari dei primi viaggiatori italiani, come quello di Gustavo Bianchi64, l’immagine del maschio era quella dell’uomo virile. Le illustrazioni accluse, aggiunte dopo in Italia65, sottolineavano la

61 Emma Bond, Il corpo come racconto, cit., p. 321

62 Sandra Ponzanesi, The Color of Love: Madamismo and Interracial Relationships in the Italian Colonies, in “Research in African Literatures”, 43 (2012), 2, p. 156

63 Giulietta Stefani, Colonia per maschi, cit., p. 16-19

64 Gustavo Bianchi fu membro dell’espedizione nell’Abissinia nel 1878. Loredana Polezzi, Il pieno e il vuoto:

Visual Representations of Africa in Italian Accounts of Colonial Experiences, in “Italian Studies”, 67 (2012), 3,

p. 342

65 Un’esempio famoso fornisce il volume Alla terra dei Galla basato sui diari di Gustavo Bianchi, pubblicato dall’editore Milanese Treves nel 1881, con illlustrazioni di E. Ximenes. Loredana Polezzi, Il pieno e il vuoto, cit., p. 343

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mascolinità di questi viaggiatori: ben vestiti grazie all’uniforme militare, avevano la barba e in mano un fucile.66 Il fucile era un oggetto ricorrente nelle rappresentazioni degli esploratori. Simboleggiava il cacciatore e mostrava il carattere coraggioso del maschio.67 Queste rappresentazioni circolavano non solo nel periodo fascista, ma continuarono a circolare anche dopo la Seconda Guerra Mondiale.68

A parte questi studi sulla superficiale rappresentazione del maschio, il corpo maschile, a differenza del corpo femminile69, non è stato sfruttato abbastanza come soggetto di ricerca nell’ambito degli studi di genere o nella critica letteraria, né in quella della letteratura migrante né in quella della letteratura postcoloniale.70 Il confronto, come hanno argomentato anche Kizito Z. Muchemwa e Robert Muponde, due studiosi di gender in ambito letterario, potrebbe invece essere interessante.71 Anzi, a loro dire, le ricerche di gender hanno valore soltanto se si attribuisce la stessa attenzione critica agli studi sui due generi. Inoltre ciò servirebbe per inquadrare meglio l’identità della figura paterna e il suo legame con la mascolinità.72

Il romanzo Adua offre l’occasione, come vedremo nei capitoli seguenti, per attribuire al corpo maschile l’attenzione che merita, pertanto questa tesi si prefigge di affiancare l’analisi della corporalità maschile a quella femminile.

Sia chiaro che il corpo nella letteratura potrebbe rappresentare il luogo o lo spazio in cui delle iscrizioni culturali, storiche o politiche vengono generate, ricreate e riprodotte in modi ben visibili dall’esterno.73 Il corpo può dunque fungere nella narrativa da simbolo del “luogo” dove si svolgono le esperienze umane, sia maschili che femminili. Vedremo che Igiaba Scego è una delle scrittrici che usa la corporalità frequentemente nelle sue opere. In conclusione, abbiamo visto come la corporalita sia un fattore determinante per poter cogliere il proprio essere e quello degli altri nella letteratura. La Scego ha usato questo elemento già nei suoi primissimi racconti e poi anche nei suoi romanzi: i disagi corporali, i travolgimenti fisici e il linguaggio che insiste in special mondo su un gergo giovanile, materiale e a volte volgare, sono strumenti di cui la scrittrice si serve per esprimere la fisicità.74 Nel terzo capitolo vedremo in dettaglio come questa fisicità è tradotta nella

66 Loredana Polezzi, Il pieno e il vuoto, cit., p. 343 67 Ibidem

68 Ivi, p. 354

69 Emma Bond & Daniele Comberiati, Il confine liquido, cit., p. 25 70 Anna-Leena Troivanen, Daddy’s Girls?, cit., p. 105

71 Ibidem 72 Ibidem

73 Emma Bond, Il corpo come racconto, cit., p. 318-319

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rappresentazione del corpo di Adua e in seguito vedremo come la Scego ha allargato tale discorso applicandolo anche al corpo maschile, cioè al corpo di Zoppe, sia in rapporto con l’identità sia con la condizione coloniale o di potere.

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Capitolo 3: Colonialismo e corporalità di Adua

In questo capitolo rifletteremo sul modo in cui Adua ha vissuto l’esperienza della Somalia coloniale e la sua vita in Italia. Analizzeremo il ruolo che questi due “patriarcati”, africano ed europeo, riservano al corpo della donna. La Scego ha usato infatti il corpo di Adua per esprimere un’esperienza fortemente segnata dal potere e violenza. Per il momento analizzeremo in particolare gli effetti sul corpo di un sistema di coercizione politica, in questo caso il sistema coloniale durante il fascismo, che si regge sullo sfruttamento psicologico e sessuale dei soggetti subalterni. In questo caso esamineremo lo sfruttamento del corpo femminile, sia in Africa che in Italia, dal colonialismo fino al presente.

3.1 L’esperienza coloniale

Il romanzo ci presenta Adua come una donna matura che vive a Roma da quando ha diciassette anni. Ci racconta la sua storia attraverso vari flashback, ma nonostante ciò seguiamo la cronologia della sua vita e della Storia italiana. In questo capitolo analizzeremo gli effetti prodotti dall’esperienza del colonialismo in Africa e in seguito durante l’esperienza del colonialismo in Italia sul corpo di Adua, non solo perché la Scego usa la rappresentazione del corpo come metafora per raccontare l’esperienza dei protagonisti, ma anche perché il corpo stesso funziona come un luogo simbolico ed è un mezzo espressivo potente a diversi livelli. Nel secondo capitolo abbiamo ricostruito in particolare il ruolo della corporalità nella letteratura mettendo in luce come attraverso il corpo si può anche confutare e giocare con delle aspettative e pregiudizi intorno alle categorie d’identità e, allo stesso tempo, esso può servire come strategia narrativa specifica.75

Come vedremo, in alcuni frammenti del romanzo il corpo di Adua assorbe gli effetti esteriori della migrazione per poi elaborarli come un malessere psicologico e fisico.76 Si potrebbe seguire la linea di ragionamento di Emma Bond e dire che il corpo, o la pelle, può generare la sensazione di essere “a casa”.77 Vedere il corpo come una casa, che si sposta, implica un’idea di transnazionalità, riassunta dalla Scego nella formula “la mia casa è dove

75 Emma Bond & et al., Destination Italy, cit., p. 243 76 Ivi, p. 250

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sono”.78 Noi portiamo quindi, letteralmente, la nostra casa con noi. Nel caso di Adua, che ha passato la sua gioventù in Somalia e il resto della sua vita in Italia, troviamo quindi due case: la Somalia e l’Italia, o meglio, Roma. Due posti completamente diversi che creano un senso di essere inbetween per la protagonista. Adua si chiede spesso chi è e dove è la sua casa. Seguendo la cronologica della Storia e le autobiografie dei protagonisti, vediamo il periodo vissuto in Somalia, prima di spostarsi verso l’Italia.

Il romanzo ci presenta la condizione di Adua a partire da quando era bambina nel mondo delle sue origini, cioè nel suo ambiente naturale, prima di vivere l’esperienza coloniale. I suoi primi anni di vita sono felici, di totale armonia con l’ambiente circostante perché è cresciuta nella campagna fuori della città di Magalo, con le capre e i cammelli, come una nomade, libera. Questo senso di libertà si traduce attraverso il corpo che è in armonia con l’ambiente e con il canto degli elefanti.

All’età di sette o otto anni, negli anni Sessanta, incontra per la prima volta suo padre Zoppe: all’epoca Adua abita assieme alla sorella Malika con quelli che aveva sempre considerato i suoi genitori. Scopre invece che il suo vero padre è Zoppe, mentre sua madre era una certa Asha la Temeraria, morta di parto. È qui che all’interno della sua comunità vive la sua prima delusione, con un nuovo padre. Questo momento potrebbe esser interpretato come un primo momento di rottura nella sua identità. Comunque, seppur controvoglia, le bambine dovevano partire con Zoppe per Magalo, la città vicina al mare di cui Adua aveva sentito parlare e dove era nata: “sentivo che la grande città mi avrebbe mangiata tutta la mia purezza, tutti i miei sogni”.79 Infatti, tanti anni dopo, racconta che quello fu il suo ultimo giorno felice. Da lì in poi “era diventata un’attrice. Nessuno avrebbe mai più visto il suo vero volto”.80 Una volta arrivati a Magalo, venne poi cresciuta da una delle mogli di Zoppe, sostituzione giovanissima – “una ragazzina con le trecce alle sue prime mestruazioni” - della vera madre. Adua racconta come quella città all’inizio non le piacque; come si sentiva strappata dalla sua famiglia e delle sue origini che apparentemente non erano veramente sue. Tutto ciò che amava lo doveva lasciare e questo processo si traduceva in una rabbia e un odio per Magalo. La protagonista si paragona a una leonessa, fiera e in trappola, rinchiusa nella sua nuova vita con persone che non conosceva e di cui sentiva paura.81

Si potrebbe sostenere che esista una doppia forma di colonialismo: da un lato, quella storica fascista, di cui parleremo dopo, dall’altro il rapporto di potere e autorità con il padre.

78 Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, Rizzoli, Milano, 2010 79 Igiaba Scego, Adua, Giunti Editore, Milano, 2015, p. 46 80 Ivi, p. 48

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Quest’ultimo è una forma di potere coercitivo che si svolge all’interno della stessa cultura e che sin dal primo momento si rivela fonte di sofferenza e scontro fra padre e figlia. È interessante che Adua contrapponga la sua libertà delle origini alle imposizioni paterne che la limitano, creando una sorta di parallelismo fra la sottomissione imposta dal colonialismo e le regole dettate dai rapporti familiari. Torneremo su questa ipotesi nel capitolo cinque, in cui analizzeremo ampiamente il rapporto fra padre e figlia.

Ciò che per lei divenne un punto luminoso nella sua nuova vita a Magalo fu il piccolo cinema costruito dagli Italiani. Mentre per suo padre Zoppe il colonialismo era fonte di tutta la miseria, il primo incontro tra l’Italia e Adua fu, dunque, di carattere positivo. Adua si ricorda anche dei night-club, le drogherie e pasticcerie italiane, ma ciò che le aveva fatto più impressione era il cinema, perché le aveva dato uno spunto per sognare. Il fatto che nell’insegna colorata del cinemino ci fosse il sottotitolo “per perpetua gloria di Roma”, le provocava “una voglia pazza di quella Roma, piena di dolce vita e cabaret”.82 Da queste parole si capisce che Adua non capiva ancora veramente cosa fosse il fascismo, ma lo percepiva soprattutto attraverso il mito italiano che esso inculcava fra i somali. Nonostante Adua da bambina non sia consapevole di questioni di tipo politico, la colonizzazione sembra presentarsi come un aspetto positivo, proponendo modelli culturali a cui assomigliare. La Scego vuole sottolineare in questo modo l’ambiguità con cui storicamente un potere coloniale si presenta ai suoi sottomessi. Il colonizzato, che cresce con il mito del paese dominate, fa propria quella visione che gli è imposta dal colonizzatore: possiamo quindi parlare di un processo di colonializzazione molto sottile e quasi inconsapevole.

Con il trasferimento in città, dove la presenza del colonialismo è più evidente, Adua non sembra tuttavia per niente infelice. Il cinema, in quanto frutto del processo coloniale rappresenta una falsa liberazione, perché propone un modello di civiltà e femminilità che in realtà le chiede di rinunciare a sé stessa e di rinnegare la sua identità. È qui, invece, che comincia la sua colonizzazione consapevole. Nella narrazione in effetti non si mette in luce la violenza perpetrata con la guerra coloniale, bensì le forme sottili che lentamente, attraverso il sogno di fare cinema, spingono Adua a desiderare di essere diversa e a conformarsi all’identità femminile diffusa dal cinema. Nel prossimo paragrafo torneremo ampiamente sui sogni di Adua.

A parte le diverse tracce della diffusione della cultura italiana in Somalia, nel romanzo troviamo anche vari riferimenti alle tradizioni somale che costituiscono la cultura

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d’appartenenza della protagonista. Secondo queste tradizioni somale Adua subisce così l’infibulazione, che la conserverà ‘pura’ fino a quando incontrerà il suo futuro marito. Suo padre le ordina di non piangere, aggiungendo che è stata liberata ora che non ha più “quel maledetto clitoride che rende sporca ogni donna” e, secondo lui, sarà felice di essere pura “finalmente chiusa come Dio comanda”.83 In questa maniera, viene “salvata” secondo le tradizioni somale, perché come dice Zoppe sarà “meno ricordata al fatto che è una donna”. Adua dunque appare soggetta sin dalla sua gioventù in Somalia a diverse forme di potere che delimitano e definiscono i confini della sua libertà di essere umano e di donna. La tradizione dell’infibulazione rappresenta chiaramente la sottomissione della donna nella cultura somala, che deve negare la sua parte femminile per preservarsi pura fino al matrimonio. In questo modo il romanzo affianca il tema storicopolitico del colonialismo con la denuncia di genere.

Nel 1976 Adua viene convocata durante una lezione a scuola nell’ufficio del preside, che le racconta trionfalmente che suo padre è stato arrestato. Zoppe si era opposto al regime di Siad Barre e non nascondeva la sua avversione per il nuovo corso che aveva preso la politica somala. A sua moglie diceva di sentire il dovere di opporsi, nonostante conoscesse i rischi, non solo per lui stesso, ma anche per le sue figlie. Lo faceva perché “c’è la mia coscienza”.84 L’arresto del padre non è dunque una sorpresa per la figlia, anche se la scelta paterna influenza la vita di Adua: si ricorda infatti come viene evitata dalle sue amiche e dalla comunità finché nessuno le rivolge più la parola85. In queste circostanze il desiderio di lasciare Magalo e la Somalia diventa ancora più forte in Adua.

Questo desiderio di andare altrove rimane però una costante nel corso della sua vita: un chiaro riferimento all’identità lo troviamo all’inizio della storia quando Adua narra che ha la valigia sempre pronta, per poter partire: “La valigia è pronta, non l’ho mai disfatta pronta dal 1976”.86 Questa idea costante della partenza per tornare a casa è un elemento ricorrente nelle storie di migranti e mostra il senso di stare inbetween. Anche in altri racconti della Scego troviamo questa metafora: nel 2005, parlando del suo libro Rhoda, la scrittrice ne spiega il significato come “a condition of impermanence and transit while waiting, in hope or fair, for the (im)possibile return home”87. Questo elemento torna anche nella sua novella Dismatria, dove le valigie simboleggiano il sogno di tornare in Somalia, ma allo stesso tempo riaffermano il modello di vita nomade in cui ogni fase è rappresentata da una valigia diversa.

83 Ivi, p. 92 84 Ivi, p. 102

85 Troviamo in questo brano anche qualche riferimento al sistema delle caste in Somalia, come “nemmeno tu, Muna, parli piu con me? Tu che sei considerata di casta inferiore?”: Igiaba Scego, Adua, p. 102

86 Ivi, p. 3

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