• No results found

Sei su Facebook? Anche no

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Share "Sei su Facebook? Anche no"

Copied!
11
0
0

Bezig met laden.... (Bekijk nu de volledige tekst)

Hele tekst

(1)

Sei su Facebook? Anche no

Cinque argomentazioni per resistere alle tentazioni del social network più popolare del momento, con inenarrabili benefici per la vita privata e l’autostima

Nato nel 2004 da un’intuizione dello studente di Harvard Mark Zuckerberg, Facebook – uno dei più diffusi siti web di social networking, ovvero un luogo di incontro virtuale con regole e procedure ben definite – ha raggiunto un’impennata di popolarità in Italia solo verso la metà del 2008. Se l’adozione del modello di socializzazione basato sull’accumulazione digitale di amicizia è arrivata con un po’ di ritardo nel nostro Paese, la velocità di crescita delle adesioni negli ultimi mesi ha abbondantemente compensato l’indifferenza iniziale, con un trend che dovrebbe far riflettere sul modello tutto italiano di diffusione dell’innovazione tecnologica.

Su Facebook ci si trova per condividere i piccoli eventi quotidiani, in una sorta di volontario panopticon ansiolitico; per girare la clessidra del tempo e riesumare rapporti sociali dimenticati (la compagna di classe delle superiori, il vicino di casa dell’infanzia, ecc.); per dare visibilità alle proprie iniziative, più o meno professionali, artistiche o di costume; semplicemente, per “esserci”. Ma Facebook permette anche forme di aggregazione finalizzate a esprimere solidarietà a Roberto Saviano, a sostenere gli insorti iraniani o a partecipare a una manifestazione ambientalista.

Per questa sua duttilità, su Facebook ci sono tutti, tanto che il nostalgico “ci vediamo al bar” è stato ormai sostituito dal più cool “ci troviamo su Facebook”. E proprio il concetto di “cool”, “alla moda”, può aiutare a spiegare il grande successo di questa piattaforma nata per “incontrare gente”. Orfani delle piazze “degradate”, o forse solo frequentate da popolazioni urbane più eterogenee di quanto si vorrebbe, gli italiani tra i 18 e i 34 anni – ma soprattutto le italiane –1 esprimono nondimeno il bisogno di un luogo di aggregazione di massa dove poter incontrare potenzialmente “tutti” e, allo stesso tempo, accedere a milieu culturalmente affini.

Oggi, finita la prima fase in cui ci si connetteva alla Rete per chattare con sconosciuti e magari inventarsi un’identità desiderata, si va su Internet per trovare il Simile a sé. Come dimostrano diversi studi (Boyd 2006; Choi 2006; Boyd and Ellison 2007), il motivo principale per cui si frequentano i siti di social networking non è la creazione di nuovi legami sociali, ma il rafforzamento di legami preesistenti, l’accesso a risorse di costruzione identitaria e di gestione della reputazione, la rappresentazione di un pubblico-modello (la mappa delle connessioni personali) che aiuti a inferire le regole di comportamento necessarie ad affrontare la socialità in rete.

Universalismo e senso di appartenenza accessibili attraverso un’unica procedura di log-in: Facebook risponde a queste due esigenze apparentemente contrastanti meglio di qualunque altro servizio, grazie alle regole sociali inscritte nel suo codice. Mentre il software

1

Per alcuni dei pochi dati statistici a oggi disponibili sulla segmentazione per età, genere e classe sociale degli utenti italiani di Facebook si veda Vincos Blog (2009).

(2)

è altamente scalabile e permette a un numero potenzialmente infinito di persone di iscriversi, infatti, l’architettura del software, basata sul concetto di “Amicizia”, permette agli utenti stessi di segmentare nel dettaglio la loro comunità ideale. D’altronde, le piattaforme di social networking si basano sul paradigma economico della Long Tail (Anderson 2006), secondo cui la quota di mercato complessiva delle nicchie di consumi culturali minori può superare la quota di mercato di pochi ma popolari best-seller, se il canale di distribuzione è abbastanza ampio. Tale paradigma, introdotto dal direttore di Wired Chris Anderson alla fine degli anni ‘90, sposa il credo neoliberista della targetizzazione infinita con l’ansia identitaria e ha guidato la progettazione dei nuovi business su Internet dopo il crollo delle Dotcom nel 2000.

Con questi presupposti, si può ben capire l’atteggiamento infastidito di chi – di fronte a qualche minoritario non ancora iscritto a Facebook – vi veda uno snobistico rifiuto della modernità. Dopotutto, “esserci” non costa niente e permette molto.

Ma ne siamo davvero sicuri? Oggi, dopo qualche anno di orgia socializzante, si incominciano a intravedere timidi segni di disincanto e anche i più entusiasti adepti di quello che Formenti (2008) chiama “cyber-pop” iniziano ad ammettere qualche effetto collaterale dell’eccesso di visibilità. A partire da analisi critiche afferenti a diverse discipline, questo articolo intende argomentare che la realtà è forse diversa da quanto appare a prima vista e che chi non si è mai iscritto a piattaforme commerciali di social network potrebbe alla fine rivelarsi prudente, piuttosto che snob. La speranza è che oggi tali argomentazioni riescano a bypassare le conformiste accuse di “estremismo” e a far breccia in un pubblico che inizia a essere più sensibile alle questioni connesse ai diritti digitali.

Storia, evoluzione e business model del social network per antonomasia

Facebook è stato fondato da alcuni studenti di Harvard nel febbraio 2004 a immagine e somiglianza degli annuari scolastici americani che riportano la fotografia di tutti gli studenti (the facebook, appunto). Obiettivo del servizio era quello di mettere in connessione gli studenti universitari dei college statunitensi. Già alla fine dell’anno, infatti, la piattaforma raccoglieva tra i propri iscritti studenti di tutte le università della c.d. Ivy League, di Stanford e del MIT. Nel 2005 il servizio estese i requisiti di partecipazione, fino ad abilitare gli indirizzi di posta elettronica con dominio universitario anche extra-statunitensi. Nel 2006, infine, la piattaforma venne aperta a chiunque senza la necessità di un’affiliazione accademica.

Questa apertura comportò un’impennata delle utenze di Facebook, che in pochi mesi divenne uno dei primi 10 siti web nel mondo per traffico. Ciò non sfuggì all’occhio attento di Microsoft che nel 2007 ne acquisì una quota pari all’1,6% al prezzo di 240 milioni di dollari. Tale quotazione portò a una stima del valore complessivo del sito ammontante a 15 miliardi di dollari, una cifra straordinaria per una startup che all’epoca fatturava 150 milioni annui e non mostrava ancora di avere un modello imprenditoriale affidabile. Se il valore del sito era sovrastimato, tuttavia, non lo erano le potenzialità di crescita del numero di utenti. Se a fine

(3)

2007 Facebook contava 50 milioni di iscritti, questi divennero 60 milioni nel gennaio 2008 e più di 200 milioni nel giugno 2009,2 con segni che indicano ampi margini di crescita.

Tra i suoi primati, Facebook può probabilmente vantare anche quello del più interessante modello di business basato sui contenuti creati dagli utenti (UGC – User Generated Contents). Nel novembre 2007 questo sito di social networking ha visto Coca-Cola, Blockbuster, Verizon, Sony Pictures, Condé Nast e altre sette multinazionali investire cospicuamente nella pubblicità dei propri prodotti attraverso questa piattaforma.

Non è difficile capire l’interesse delle corporation nei confronti di tanti milioni di potenziali promotori del proprio marchio: agganciare l’esperienza di consumo alle pratiche socializzanti spontanee rende l’iniziativa promozionale invisibile, come una patina che riveste ogni atto comunicativo in maniera quasi impercettibile e per questo estremamente più potente. E della potenza del passaparola digitale i manager delle aziende sono assolutamente consapevoli:

“con Facebook Ads, i nostri marchi possono diventare parte del modo in cui gli utenti comunicano e interagiscono su Facebook” (Carol Kruse, vice-presidente, global interactive marketing, the Coca-Cola Company); “Questa iniziativa va oltre la mera elaborazione di spot pubblicitari. Qui si tratta della partecipazione di Blockbuster alla comunità dei consumatori, cosicché, in cambio, i consumatori si sentano motivati a condividere i vantaggi del nostro marchio con i loro amici” (Jim Keyes, presidente e CEO di Blockbuster). (Commenti citati in Hodgkinson 2008, traduzione dall’inglese dell’autrice).

Inoltre, nell’agosto 2008 è fuoriuscita una notizia secondo cui Facebook starebbe sperimentando una nuova generazione di strumenti pubblicitari chiamati “engagement ads” (Boorstin 2008). Con gli “annunci impegnati” (questa la traduzione letterale), per accedere alla propria pagina attraverso la procedura di log-in gli utenti di Facebook dovranno rispondere a domande di natura commerciale, valutando uno specifico prodotto. La risposta sarà poi inviata a tutti gli amici dell’utente che ha espresso il giudizio. Di fatto, questa forma di pubblicità chiede agli utenti stessi di creare dei contenuti riguardanti un prodotto.

Nonostante tanta inventiva, il modello economico di Facebook si sta rivelando meno proficuo del previsto. Mentre la piattaforma era stata valutata 15 miliardi di dollari nel 2007, a oggi le entrate sono nettamente inferiori alle aspettative. Se nel 2008 l’aspettativa era quella di raggiungere i 350 milioni di dollari di ricavi (Swisher 2008), l’anno chiuse a soli 265 milioni (Blodget 2008). Di fronte alle difficoltà a monetizzare quanto sperato, recentemente

Zuckerberg ha annunciato un cambio di registro radicale: in futuro Facebook non si proporrà più solo come sito web, ma come piattaforma per le transazioni monetarie degli utenti (Carlson 2009). Un ritorno alle origini, quindi, considerato che uno dei tre amministratori, Peter Thiel, è stato co-fondatore della piattaforma di transazioni online PayPal.

2

Fonte: Facebook Statistics, http://www.facebook.com/press/info.php?statistics, ultimo accesso: 23 giugno 2009.

(4)

Cinque argomentazioni critiche per riuscire a fare a meno di Facebook

A questo punto, viene spontaneo domandarsi dove risieda il vulnus di un servizio come Facebook che – mentre offre una concreta risposta ai bisogni più condivisibili di socializzazione – riesce anche a produrre valore. Chi scrive ammette che la critica a un tale servizio sia ancora minoritaria, mentre una maggioranza di utenti trasversale ai credo politici sembra insofferente a posizioni che appaiono quasi ideologiche. E se una parte di queste può effettivamente essere ricondotta ad analisi strutturaliste, altre argomentazioni critiche si fondano su informazioni per lo più sconosciute alla maggior parte degli utenti.

Senza voler commettere l’errore di molta sociologia critica che non tiene nella dovuta considerazione le posizioni degli attori sociali, ergendosi a detentore dell’unica forma di conoscenza “illuminata”,3 in queste pagine vogliamo raccogliere le diverse argomentazioni critiche nei confronti dei siti di social network, e di Facebook in particolare, finora emerse. L’intento non è quello di affermare un’episteme scientifica nei confronti di una doxa popolare, quanto quello di apportare elementi per una più equilibrata discussione informata che eviti tanto la demonizzazione del cyber-pop, quanto l’esaltazione naif e fuori tempo massimo del “potere liberatorio” di una Rete sempre più commercializzata e centralizzata. Il lettore deciderà se e quali delle seguenti argomentazioni risultano più convincenti.

Le critiche al modello di socializzazione introdotto da Facebook possono essere ricondotte a tre ambiti disciplinari diversi: la politica dell’informazione, l’economia delle industrie creative, i cultural studies. I primi tre punti che seguono afferiscono alla politica dell’informazione, il quarto all’economia del lavoro, il quinto ai cultural studies.

1) La prima obiezione a Facebook si fonda sulla più banale delle procedure euristiche: “dimmi chi comanda e ti dirò dove sei finito”. Fin troppo banale, non fosse che andare a spulciare tra i vertici di Facebook porta alla luce alcune interessanti incoerenze.

Oggi nel consiglio di amministrazione di Facebook siedono tre uomini: il fondatore Mark Zuckerberg, il venture capitalist Jim Breyer e il futurista “neocon” e gestore di hedge fund Peter Thiel. Come fa notare il giornalista del Guardian Tom Hodgkinson, Breyer è un partner della compagnia di venture capital Accel Partners che nel 2005 ha investito 12,7 milioni di dollari in Facebook. Ma Breyer siede o sedeva in molti dei consigli di amministrazione di quelle aziende che stanno guidando l’innovazione ICT negli USA, come la National Venture Capital Association (NVCA). Ora, uno dei consiglieri della stessa NVCA, co-evo di Breyer, è stato Howard Cox, anch’egli finanziatore di Facebook, nonché membro del consiglio di amministrazione di In-Q-Tel, la società di venture capital della CIA. La missione di In-Q-Tel è esplicitamente espressa in questi termini: “identificare e creare parternariati con le società che sviluppano tecnologie innovative al fine di mettere queste soluzioni a disposizione della Central Intelligence Agency e della più vasta comunità statunitense di addetti all’intelligence” (Hodgkinson 2008. Traduzione dall’inglese dell’autrice). Se si ipotizza che questa concezione delle ICT come strumenti di controllo

3

(5)

venga condivisa da chi siede nei consigli di amministrazione delle società compartecipate in un gioco di scatole cinesi, si aprono degli orizzonti quantomeno preoccupanti per coloro che a una di tali società hanno affidato il proprio capitale sociale.

Dal canto suo, Thiel – che possiede il 7% di Facebook – è un gestore di hedge fund tra i più noti e competitivi nella Silicon Valley. Ma Thiel è, soprattutto, un teorico futurista e uno dei leader di pensiero dell’ambiente neoconservatore. Insieme ad altri teorici neoliberisti come Kevin Kelly e Yochai Benkler, Thiel teorizza il superamento dei vincoli posti dalle leggi nazionali, dal balzello delle contribuzioni statali e dalla proprietà privata basata sul diritto d’autore per focalizzarsi sull’estrazione di valore dagli scambi relazionali tra gli individui. Come ha notato lo storico Fred Turner, è questo tipo di libertari/liberisti – che trova espressione in riviste come Wired – che ha fornito visibilità mediatica e argomenti alle tesi neocon di Newt Gingrich (Turner 2006).4

Comunque la si pensi dei poteri forti con cui due dei tre amministratori di Facebook hanno innegabili relazioni consolidate, c’è da chiedersi come la politica che tali poteri hanno imposto alla Rete negli ultimi anni (ovvero la questione della Net Neutrality, del controllo capillare di Internet e della sua progressiva commercializzazione) possa sposarsi con un servizio che afferma di voler favorire la creazione di comunità. Le applicazioni più futuristiche dei dati raccolti attraverso Facebook sono ancora da venire, e non necessariamente saranno finalizzate a “facilitare l’amicizia” tra singoli individui. L’utente che affida personalissimi dati sulla propria vita e le proprie reti sociali a simili amministratori potrebbe voler farsi alcune domande sui valori che muovono l’azione di coloro a cui dona la propria identità digitale.

2) Il che ci introduce al secondo punto: la politica di gestione dei dati personali perseguita da Facebook. Come noto, il servizio permette diversi regimi di visibilità, lasciando all’utente la possibilità di decidere a chi rendere accessibili alcuni dati. Tuttavia, vi sono numerosi casi in cui Facebook può cedere i dati a una terza parte. In primo luogo, se l’utente non lo impedisce esplicitamente nelle impostazioni personali sulla privacy.

In secondo luogo, Facebook può mettere a disposizione di altre aziende, avvocati, agenzie o enti governativi informazioni relative agli utenti “quando sia necessario obbedire alla legge, al fine di proteggere gli interessi e la proprietà di Facebook” (Facebook Privacy Policy).5 Anche Facebook, infatti, ha adottato una politica di collaborazione attiva nei confronti dei Governi. Come hanno dimostrato i ricercatori di Stanford Goldsmith e Wu (2006), nonostante la retorica della crisi dello Stato-Nazione, il potere contrattuale che i Governi, anche democratici, possono esercitare sulle filiali locali delle grandi multinazionali è ancora tale da impedire che queste possano rifiutarsi di collaborare con le loro richieste.

4

Gingrich è uno dei decani tra i repubblicani eletti alla House of Representatives USA, di cui è stato anche Speaker. Nel 1994 presentò il “Contratto con l’America” durante il Congresso del Partito Repubblicano. Tale Contratto intendeva fondare il nuovo corso delle politiche conservatrici nel caso il Big Old Party avesse vinto le elezioni congressuali.

5

La Privacy Policy di Facebook è accessibile all’indirizzo

(6)

In terzo luogo, aziende bramose di dati sensibili per la segmentazione del target pubblicitario possono associare il nome e l'immagine del profilo utente a contenuti commerciali o sponsorizzati. L’utente viene quindi raggiunto da pubblicità ritagliata ad hoc sulle sue preferenze di consumo e i suoi comportamenti online vengono mappati nel dettaglio. Inoltre, attraverso il contestato servizio Beacon, Facebook può tracciare il comportamento di un proprio utente (un acquisto, un post, ecc) su un sito web di terze parti, rendendo tale comportamento noto alla lista di amici dell’utente. Naturalmente, l’utente può rifiutarsi di condividere tali informazioni con i propri contatti, ma solo una volta che Facebook ha già raccolto tali dati.

Più in generale, quando si tratta di servizi che conservano dati relativi agli utenti per lunghi periodi, è necessario essere consapevoli del fatto che tali informazioni, create in un dato contesto, in un dato momento storico e per determinati scopi, potrebbero un giorno essere riutilizzati in contesti e per scopi imprevedibili al momento della registrazione del dato. La firma di una petizione contro “l’imperialismo USA” nel 2003, per esempio, assumerebbe tutt’altro valore oggi, quando la guerra in Iraq è al suo volgere e il presidente USA è cambiato, soprattutto se ripubblicata all’interno di un sito filo-governativo iraniano.

3) Dalla “Privacy Policy” e dalle “Condizioni di utilizzo del servizio” che ogni nuovo utente di Facebook deve sottoscrivere, emerge una netta asimmetria tra i doveri delle parti. Da un lato, l’attività di Facebook si svolge nel nome della de-responsabilizzazione dell’azienda e il rischio viene caricato quasi completamente sulle spalle dell’utente individuale. Nelle Condizioni di utilizzo, infatti, si legge “Facebook si impegna a mantenere la sicurezza, ma non possiamo garantirla”. Quando l’utente posta delle informazioni riservate ai propri amici, lo fa a proprio rischio e deve tenere in considerazione che tali informazioni potrebbero diventare pubbliche. Poiché “ogni misura di sicurezza è imperfetta o penetrabile”, Facebook non garantisce che i contenuti postati sul sito non vengano letti da persone non autorizzate e dichiara di non essere responsabile per l’infrazione delle misure di sicurezza implementate nel sito. Inoltre, Facebook omette ogni responsabilità per le violazioni della privacy che possono venire commesse da agenzie pubblicitarie che operano come inserzionisti paganti accedendo agli utenti attraverso la piattaforma stessa.

Dall’altro lato, a una tale esternalizzazione del rischio a discapito dell’utente corrisponde per quest’ultimo una scarsa possibilità di controllo della propria identità digitale. Nonostante nelle Condizioni di utilizzo si affermi che “tutti i contenuti e le informazioni che pubblichi su Facebook sono di tua proprietà”, sono numerose le condizioni che limitano il reale possesso dei dati. In primo luogo, per potersi iscriversi l’utente deve accettare di cedere a Facebook una licenza di utilizzo a titolo gratuito dei contenuti prodotti dall’utente. Tale licenza è valida in tutto il mondo ed è trasferibile, anche in sublicenza.

Secondo, i contenuti possono rimanere disponibili anche dopo la cancellazione, per un “periodo ragionevole”. Similmente, anche la cancellazione dell’account potrebbe non essere definitiva e lasciare delle tracce. In particolare, ogni contenuto oggetto di una comunicazione non può essere cancellato, nemmeno dopo la rimozione del profilo utente.

(7)

Terzo, al contrario, è possibile che un profilo e i relativi contenuti vengano rimossi in qualsiasi momento dai gestori, senza obbligo di comunicazione preventiva. Questa eventualità – verificatasi spesso e a insindacabile giudizio dei gestori della piattaforma – non comporta solo la perdita di dati, ma una vera e propria cancellazione dell’identità digitale dell’utente, che può ritrovarsi improvvisamente privato dell’accesso a quei network sociali che ha costruito nel tempo con notevole dispendio di energie.

Quarto, l’identità dell’utente non viene costruita esclusivamente a partire dai dati che l’utente stesso sceglie di inserire, ma vede l’attiva partecipazione di Facebook. Il servizio, infatti, “può raccogliere informazioni sull’utente da altre fonti, come giornali, blog, servizi di messaggeria istantanea e i contenuti postati da altri utenti di Facebook , al fine di fornire all’utente le informazioni più utili e l’esperienza più personalizzata possibile” (Facebook Privacy Policy). In altre parole, Facebook opera per suggerire all’utente maggiori informazioni… su se stesso! Possiamo ritrovare toni similmente paternalistici anche in un altro passaggio della Privacy Policy: “Facebook può usare informazioni nel tuo profilo senza identificarti come individuo presso parti terze. Lo facciamo per ottenere dati aggregati […] e personalizzare gli annunci pubblicitari. Crediamo che questo venga a tuo beneficio. Potrai saperne di più sul mondo che ti circonda e, quando ci sono degli annunci pubblicitari, è più probabile che questi siano di tuo interesse” (Facebook Privacy Policy. Corsivo dell’autrice).

Tutte queste eccezioni erodono la possibilità di disporre liberamente della propria identità digitale – immateriale quanto si vuole, ma non per questo produttrice di conseguenze meno concrete – costruita in ore e ore di paziente aggiornamento del proprio profilo.

4) Le considerazioni sul lavoro immateriali ci conducono, quindi, al quarto motivo per cui resistere alla tentazione di iscriversi a Facebook, motivo che può essere riassunto con una domanda: limitereste mai una parte consistente della vostra socialità ai rapporti nati all’interno di un centro commerciale?

Perché Facebook è prima di tutto un’attività commerciale. Tra il 2004 e il 2005 Internet si stava re-incarnando nel web dominato dai contenuti prodotti dagli utenti nello stesso modo in cui la Net Economy si stava riprendendo dallo shock della bolla Dotcom inventando un nuovo modello di business che si adattasse maggiormente al carattere aperto del medium. Nello stesso periodo, il termine “comunità virtuale” era divenuto un termine ormai inflazionato e l’occasione era propizia per sostituirlo con “social network”.

Nell’accezione di Tim O’Reilly – che coniò il termine nel 2004 durante una serie di convegni organizzati da O’Reilly Media e rivolti a investitori di Internet – il “Web 2.0” è un tentativo di escogitare un nuovo modo di produrre profitto su Internet rispettando la sua natura orientata alla condivisione, dopo che la crisi delle Dotcom aveva decretato il fallimento del vecchio modello pay-per-view (O’Reilly 2005). Questa conversione ruotò intorno al principio cardine dello “sfruttamento dell’intelligenza collettiva” (O’Reilly 2006). Produrre valore da attività non-economiche, estrarre profitto dalle relazioni informali extra-lavorative, esternalizzare la produzione dei contenuti delegandola a utenti amatoriali divennero il mantra della generazione di imprenditori di Internet post-Dotcom.

(8)

Ci interessi o meno, ogni volta che carichiamo un contenuto su piattaforme commerciali Web 2.0 e lo segnaliamo a qualcuno, produciamo valore. Niente di male, non fosse che a tutt’oggi non è stata elaborata una risposta credibile alla domanda su come un’economia dei commons (beni pubblici) digitali debba redistribuire il valore creato. Da un lato, i database di esseri umani rappresentano miniere di preziosissimi dati, dall’altro, sono gli utenti stessi a lavorare, quando creano i contenuti che poi condividono con gli amici. Tuttavia, a queste fonti produttive non viene riconosciuta che raramente qualche forma di retribuzione.

Con i social network, il modello di produzione si fa ancora più liscio e invisibile. Come fa notare Hodgkinson, “‘condividere’ è l’espressione usata da Facebook come sinonimo di ‘pubblicizzare’. Iscriviti a Facebook e diventerai un messaggio pubblicitario semovente e parlante per Blockbuster o Coca Cola che espone le virtù di questi marchi ai propri amici. Siamo di fronte alla mercificazione delle relazioni umane, all’estrazione di valore capitalistico dall’amicizia” (Hodgkinson 2008. Traduzione dall’inglese dell’autrice).

Simili critiche che si focalizzano sulla produzione di valore da attività immateriali extra-lavorative si stanno diffondendo anche presso gli accademici. La critica post-Operaista, per esempio, ha messo in discussione il principio di simmetria tra la produzione simbolica e le risorse materiali su cui poggia il paradigma della cyber-cultura. Secondo questi autori, l’ideologia della “free culture” non si è mai interrogata su come il surplus venga accumulato attraverso le attività collaborative su Internet, né su come il valore prodotto venga ri-allocato una volta che si materializza negli spazi urbani, nei media, nella produzione di conoscenza o nei mercati finanziari (Pasquinelli 2008). In altri termini, l’ideologia dell’economia del dono (la “gift economy”) mentre celebra la dematerializzazione postula un Internet libero da ogni tentativo di sfruttamento che tende a un equilibrio sociale “naturale”. Nella retorica cyber-libertaria – da cui anche i social network à la Facebook hanno attinto a piene mani – non vi è alcun riferimento al lavoro offline che rende possibile il mondo online.

Il paradosso di una “gift economy” informale trasformata in una macchina da centinaia di milioni di dollari passa attraverso l’appropriazione del vernacolo comunitario tecno-libertario. Come ha fatto notare Lovink (2007), l’ideologia del “free” ha spinto milioni di persone a contribuite con contenuti auto-prodotti alle piattaforme di Web 2.0, mentre una mancanza endemica di modelli imprenditoriali che decentralizzino non solo la produzione, ma anche i profitti della c.d. “società della conoscenza” impedisce ai lavoratori creativi di fare il salto dall’amatorialità al professionismo, condannandoli a un “McJob” permanente e alla celebrazione della propria “libertà” (di produrre) nelle ore notturne.

È tempo di riconoscere che il dono della propria creatività dovrebbe essere un atto generoso e volontario, non l’unica opzione disponibile. È tempo di riconoscere le sembianze del lavoratore dietro la maschera naif dell’amatore. È tempo di rifiutare il lavoro travestito da socializzazione, a puro beneficio degli intermediari – chi su Internet si arricchisce limitandosi a raccogliere e filtrare i contenuti. È tempo di “notworking”.

5) L’ultimo motivo per cui astenersi da Facebook et similia proviene da un ambito disciplinare – ancora poco diffuso in Italia – a cavallo tra i cultural studies e l’architettura dei

(9)

software. Il principio cardine di questa tradizione vede il software incarnare principi politici di genere, di razza, di classe, ecc. Secondo questo approccio, il codice – e la tecnologia in generale – non è mai neutro, ma porta traccia dei valori impliciti nella progettazione.

Nel caso di Facebook, il software “sociale” incarna in primo luogo una forma di socializzazione che Castells (1996; 2001) e Wellman (2001) hanno a buon diritto definito “network individualism”. Su questa piattaforma di socializzazione l’unica forma identitaria contemplata è quella individuale: solo gli individui possono creare un account e mettersi in connessione con altri individui, mentre i soggetti collettivi, fino a qualche tempo fa non previsti, possono rappresentarsi ora con pagine dedicate le cui funzionalità sono molto limitate e orientate all’auto-promozione. Soprattutto, non è possibile pervenire alla creazione di un soggetto collettivo tout court durante il processo di socializzazione su Facebook. Anche nei gruppi, è l’identità individuale a condurre l’aggregazione.

Come questo orientamento sia una scelta operata a livello del codice diviene evidente se si considerano le regole imposte dal software stesso. Per iscriversi, è necessario inserire un nome (reale) e un indirizzo e-mail, entrambi requisiti che afferiscono solo agli individui. Inoltre, le connessioni tra soggetti avvengono inviando un messaggio di richiesta di ”Amicizia”, ovvero di un rapporto che per antonomasia si instaura tra soggetti presi nella loro individualità. Infine, il software rifiuta l’antagonismo. Non solo non è possibile inviare richieste di “Inimicizia” e si è verificato spesso che flame e attacchi personali venissero censurati dai gestori di Facebook, ma non c’è alcun modo di rendere visibile chi sta fuori un’enclave di simili. La logica del software delle piattaforme di social networking è quella del link, e il link corrisponde sempre agli “amici”: il software non lascia alcuna altra scelta che accettare un’inflazione di amici.

Si tratta di un modello di socializzazione basato su una concezione capitalista e infantile dei rapporti sociali. Capitalista perché si basa sull’accumulazione di una risorsa immateriale come l’amicizia, resa merce di scambio quantificabile con la moneta della popolarità (che è altra cosa dalla reputazione, di natura qualitativa). Infantile perché scambia l’amicizia con l’omogeneità, con la rassicurante creazione di enclave fatte di simili, dove l’Altro viene escluso semplicemente perché reso invisibile da un software che non contempla la possibilità del conflitto. Come fanno notare Lovink and Rossiter (2005, 8), “questo è revivalismo New Age al lavoro, disperatamente insicuro e in cerca di un ‘amico’”. Per chi non può prescindere dall’esperienza dell’Altro nel plasmare la propria identità, questa argomentazione, da sola, potrebbe essere sufficiente a decidere di abbandonare Facebook al suo destino.

Riferimenti bibliografici e web

Anderson, C. (2006), The Long Tail: Why The Future of Business in Selling Less of More. (New York: Hyperion).

(10)

Blodget, H. (2008), ‘Facebook Now Worth About $4 Billion, Revenue light’, The Business Insider. Disponibile su http://www.businessinsider.com/2008/11/facebook-stock-now-worth-about-4-billion-, ultimo accesso 25 giugno 2009.

Boorstin, J. (2008), ‘Facebook’s New Ad Play In a Down Economy’, CNBC.com. Disponibile su http://www.cnbc.com/id/27682302, ultimo accesso 13 maggio 2009.

Boyd, D. M. (2006), ‘Friends, Friendsters, and MySpace Top 8: Writing community into being on social network sites’, First Monday, 11 (12). Disponibile su

http://www.firstmonday.org/issues/issue11_12/boyd/, ultimo accesso 25 giugno 2009. Boyd, D. M. and Ellison, N. B. (2007), ‘Social network sites: Definition, history, and

scholarship’, Journal of Computer-Mediated Communication, 13 (1). Disponibile su

http://jcmc.indiana.edu/vol13/issue1/boyd.ellison.html, ultimo accesso 25 giugno 2009. Carlson, N. (2009), “Zuck: Facebook's Future Is Not As A Web Site”, The Business Insider.

Disponibile su http://www.businessinsider.com/zuck-facebooks-future-is-not-as-a-web-site-2009-6, ultimo accesso 25 giugno 2009.

Castells, M. (1996), The Rise of The Network Society, Volume I: The Information Age. (Oxford: Blackwell).

— (2001), Internet Galaxy. (Oxford: Oxford University Press).

Choi, J. H. (2006), ‘Living in Cyworld: Contextualising Cy-Ties in South Korea’. In Bruns, A. and Jacobs, J. (Eds.), Use of Blogs (Digital Formations). (New York: Peter Lang). Formenti, C. (2008), Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media. (Milano: Raffaello

Cortina Editore).

Goldsmith, J. and Wu, T. (2006), Who Controls the Internet? Illusions of a Borderless World. (New York: Oxford University Press).

Hodgkinson, T. (2008), ‘With friends like these…’, The Guardian, 14 gennaio.

Latour, B. (2005), Reassembling the Social. An Introduction to Actor-Network-Theory. (Oxford: Oxford University Press).

(11)

Lovink, G. (2007), Zero comments. (New York: Routledge). Trad. it. Zero Comments. Teoria critica di Internet. (Milano: Bruno Mondadori). 2007.

Lovink, G. e Rossiter, N. (2005), ‘Dawn of the Organised Networks’, Fibreculture Journal, 5. Disponibile su http://journal.fibreculture.org/issue5/lovink_rossiter_print.html, ultimo accesso 31 gennaio 2009.

O’Reilly, T. (2005), ‘What Is Web 2.0. Design Patterns and Business Models for the Next Generation of Software’. Disponibile su http://www.oreillynet.com/lpt/a/6228, ultimo accesso 31 gennaio 2009.

— (2006), ‘Web 2.0 Compact Definition: Trying Again’. Disponibile su

http://radar.oreilly.com/archives/2006/12/web-20-compact.html, ultimo accesso 31

gennaio 2009.

Pasquinelli, M. (2008), Animal Spirit. A Bestiary of the Commons (Rotterdam: NAi Publishers).

Swisher, K. (2008), ‘Chatty Zuckerberg Tells All About Facebook Finances’, All Things Digital. Disponibile su http://kara.allthingsd.com/20080131/chatty-zuckerberg-tells-all-about-facebook-finances/, ultimo accesso 25 giugno 2009.

Turner, F. (2006), From Counterculture to Cyberculture. Stewart Brand, the Whole Earth Network, and the Rise of Digital Utopianism. (Chicago and London: The University of Chicago Press).

Vincos Blog (2009), Osservatorio Facebook. Disponibile su http://www.vincos.it/osservatorio-facebook/ , ultimo accesso 25 giugno 2009.

Wellman, B. (2001), ‘Physical place and cyberplace: The rise of personalized networking’, International Journal of Urban and Regional Research, vol. 25, no. 2, pp. 227-252.

Buona fonte di approfondimento sui social network (in inglese):

http://www.danah.org/SNSResearch.html

Referenties

GERELATEERDE DOCUMENTEN

Facebook is er niet in geslaagd duidelijk te maken dat zijn verdienmodel (en belangrijke inkomstenbron) is gebaseerd op het commercieel gebruik van gegevens en

Als je vervolgens klikt op de knop ‘Mijn profiel bekijken’ kan je zien hoe anderen jouw profiel te zien krijgen en welke gegevens je vrijgeeft.. Op je profielpagina staat

Het is de policy van facebook dat profielen enkel bestemd zijn voor personen en dat organisaties geen profiel mogen hebben maar zich via een pagina bekend moeten maken.. Facebook

Zona D2: (219-120 cm) è uno strato di torba molto nera nella quale si trovano carboni in alta proporzione. Alnus diminuisce mentre sono presenti alte percentuali di Vitis sp.

FF Ciò che si osserva è come il consumo critico venga utilizzato sempre più spesso come uno strumento di azione economica, cociale e politica da un crescente numero

The present study investigates an innovative model of the phenomenon Facebook addiction, focused on (psychological) predictors like social anxiety, loneliness, depression, gender

Banda di caretera principal Cas, apartamento, propiedad comercial Haltura maximo Areanan residencial 2 piso cu dak. (haltura di goot 6, haltura di construccion 8 m) Banda

Pochi sono gli egittologi, e gli studiosi in generale, che si sono interessati all'ar- cheologia delle oasi, a causa della loro distanza dal Ni- lo e della mancanza di strade