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L’abito fa o non fa il monaco? Travestimento femminile ne La Calandria del Bibbiena (1470-1520)

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L’abito fa o non fa il monaco? Travestimento

femminile ne La Calandria del Bibbiena

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Indice

Introduzione pag. 3

Capitolo 1: Introduzione a La Calandria

1.1 Scrittore ed ‘alter papa’: la vita turbolenta di Cardinal Bibbiena pag. 7 1.2 Dai modelli classici ad un modello nuovo: la commedia dell’Ariosto pag. 8 1.3 La Calandria: una commedia degna del Rinascimento pag. 12

Capitolo 2: La ricostruzione contestuale operata da Franco Ruffini e la festa ‘come culmine della cultura’

2.1 Introduzione pag. 16

2.2 Il meccanismo de La Calandria: la soluzione per il problema di Plauto pag. 17

2.3 Il luogo teatrale come utopia antica pag. 19

Capitolo 3: Il soliloquio femminile

3.1 Introduzione pag. 22

3.2 Santilla: un grido per il sesso femminile pag. 23

3.3 Fulvia: in cerca di vantaggi personali pag. 24

3.4 Fessenio ed il monologo maschile: un controesempio pag. 25

Capitolo 4: Il travestimento femminile

4.1 Funzioni letterarie del travestimento femminile pag. 29 4.2 Inganno ed astuzia: mascheramenti nel Prologo pag. 30

4.3 Sorpassando la libertà di movimento pag. 31

4.4 Il travestimento di Fulvia pag. 33

4.5 Santilla: tra mascheramento costretto e volontario pag. 35

Capitolo 5: Onore e spazio femminile

5.1 La casa: spazio della castità femminile pag. 38

5.2 Onore femminile ne La Calandria pag. 40

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Conclusioni pag. 45

Supplementi

Supplemento A: corpus pag. 50

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Introduzione

FANNIO Sappi che Lidio mio padrone è ermafrodito.

RUFFO E che importa questo merdafiorito?

FANNIO Ermafrodito, dico io. Diavol! tu se’ grosso!

RUFFO: Be’, che vuol dire? FANNIO Tu nol sai? RUFFO Per ciò il dimando.

FANNIO Ermafroditi sono quelli che hanno l’uno e l’altro sesso.

RUFFO Ed è Lidio uno di quelli? FANNIO: Sí, dico.

RUFFO Ed ha il sesso da donna e la radice d’uomo?

FANNIO Messer sí.

RUFFO Te giuro, alle guagnele, che mi è sempre parso che Lidio tuo abbia, nella voce e anco ne’ modi, un poco del feminile.

Cal., III, 17.

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Il gusto degli scambi e dei riconoscimenti portava con sé naturalmente quello dei travestimenti. Se è vero che essi erano già in uso presso i più antichi attori nelle stesse atellane, e, in alcuni casi, persino il titolo ne fa testimonianza, nella Calandria essi acquistavano caratteristiche proprie del secolo e assumevano un significato e un’importanza interamente nuovi. Presso i latini il travestimento aveva più spesso la

funzione di nascondere l’identità della persona e non il sesso, serviva per recarsi, senz’essere riconosciuti, a convegni d’amore, o per sottrarsi al pericolo di essere scoperti in altre circostanze; invece in molte

commedie del Cinquecento (corsivo nostro), come nella Calandria, il travestimento era di uomini in

donne e viceversa e (anche se questo non era ignoto agli antichi: basterebbe ricordare il Maccus virgo), costituiva piuttosto un mezzo facile a intrighi lubrici e ridevoli che il Cinquecento massimamente amava.1

Moncallero evidenzia che il travestimento femminile non era un argomento sconosciuto nell’Antichità, ma lo scopo del mascheramento era diverso. In più, il Bibbiena ha creato una trama complicata con diversi camuffamenti in cui l’autore e Cardinale gioca con la gemellarità bisessuale dei protagonisti Lidio e Santilla, un tema che rispecchia

l’atmosfera intrinsecamente boccaccesca 2. La commedia presenta un capovolgimento continuo, definito da Bianca Concolino Mancini Abram come una vertigine dei travestimenti 3 oppure un gioco di specchi 4: il Bibbiena ha costruito un susseguirsi di scene vertiginose, fatto per fingere la trappola in cui può cadere il pubblico, e proprio in questo consiste il fascino de La Calandria.

In questo ‘perpetuum mobile’ di travestimenti salta all’occhio a maggior ragione i mascheramenti di donne in uomini, ed il nostro argomento d’approfondimento saranno proprio i casi della giovane ragazza greca Santilla e della ricca padrona romana Fulvia.

1 Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520).

Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp.

570.

2

Sulla relazione tra La Calandria e il capolavoro boccaccesco, Il Decamerone (1351) è stato scritto in modo molto ampio da vari critici letterari. Il nostro scopo in questa tesi non è di trattare questa tematica troppo ampia entro i presenti limiti, nonostante il fatto che vi accenneremo: un argomento

d’approfondimento su La Calandria non sarebbe completo senza nominare anche il legame con Boccaccio. Per una spiegazione approfondita su questo rapporto si veda ad esempio Janet Smarr. “The Marriage of Plautus and Boccaccio”. Università di San Diego, Heliotropia 1.1,

2003.http://www.brown.edu/Departments/Italian_Studies/heliotropia/01-01/smarr.pdf, Stäuble, Antonio. “Antecedenti boccacciani in alcuni personaggi

della commedia rinascimentale”. Università di Losanna, Quaderns d’Italià 14, 2009, pp. 37-47. http://www.raco.cat/index.php/QuadernsItalia/article/view/143963/195663, oppure Moncallero, G.L., Il

cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520). Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953.

3

Concolino Mancini Abram, Bianca. Da Calandrino a Calandro.Variazioni sul tema della beffa. Université de Poitiers, Quaderns d’Italià 14, 2009, pp. 19.

http://ddd.uab.cat/pub/qdi/11359730n14p13.pdf

4Concolino Mancini Abram, Bianca. “Tradizione e innovazione nella commedia del Cinquecento”.

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L’enfasi di questa tesi sarà sulla rappresentazione della veste femminile e la nostra domanda principale è la seguente: come sopravvive la veste femminile in questo flusso ininterotto di scambi sessuali? Per rendere più chiaro il termine ‘veste’, è prima di tutto utile esaminare la sua definizione esatta. Il significato della parola e le sue

connotazioni possiamo considerare essere abbastanza ampi, se rivolgiamo l’attenzione a Lo Zingarelli 2010:

vès-te o † vèsta [di orig. indeur. sec. XII] s.f. [pl. vesti, † vesta] 1 (gener.) abito, vestito (…).

2 (spec.al pl) il complesso degli indumenti indossati da una persona (…). 3 (est., raro) rivestimento, copertura (…).

4 (poet.) il corpo umano, rispetto all’anima.

5 (fig.) forma, aspetto esteriore, apparenza: una v. ingannevole di pudicizia, di onestà, di simpatia (...). 6 (fig.) autorità e diritto inerente a una carica, un ufficio│qualità, funzione (…).

7 (fig.) forma di espressione: dare una v. nobile, poetica, eroica alle proprie idee 5

La veste pare avere un doppio carattere e non ha solo il significato letterale di ‘vestiti’, un fatto di cui bisogna tener conto. Bianca Concolino Mancini Abram (2002) sottolinea nel suo saggio ancora una volta l’importanza simbolica della veste:

Il vestito diventa allora simbolo tangibile del disordine e dell’anarchia che regnano sulla scena. Può essere il segno della sciocchezza di alcuni personaggi, l’elemento rivelatore della sfasatura tra l’idea che il personaggio ha di sé e l’immagine che egli offre al pubblico.6

Per rispondere alla nostra domanda chiave, la tesi verrà divisa in cinque

elementi essenziali: una prima parte sarà rivolta ad un’introduzione riguardante l’autore e la sua opera . Nel secondo capitolo offriremo in forma sintetica l’essenziale del saggio critico di Franco Ruffini (1986)7, il quale è, fino ad oggi, assolutamente unico per la maniera dettagliata in cui presenta la rappresentazione e la scena de La Calandria alla corte urbinate e la sua ricostruzione contestuale nella Urbino del secondo decennio del ‘500. Il terzo capitolo verrà dedicato alle analisi del soliloquio femminile nella nostra

5 Zingarelli, Nicola. Lo Zingarelli 2010. Vocabolario della linga italiana. Bologna, Zanichelli, 2009, p.

2522.

6Concolino Mancini Abram, Bianca. “Il travestimento nella commedia del ‘500.” Da: Il vestito e la sua

immagine. Atti del convegno in omaggio a Cesare Vecellio nel quarto centenario della morteBelluno 20-22 settembre 2001. A.c.d. Jeannine Guérin Dalle Mese. Belluno, Amministrazione Provinciale di

Belluno, 2002, pp. 244.

7 Ruffini, Franco. Commedia e festa nel Rinascimento. La «Calandria » alla corte di Urbino. Bologna, Il

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Capitolo 1: Introduzione a La Calandria

1.1 Scrittore ed ‘alter papa’: la vita turbolenta del cardinal Bibbiena

Prima di porre l’accento su La Calandria stessa, rivolgiamo l’attenzione al suo autore, il cardinal Bibbiena8. Il Bibbiena nacque il 4 agosto 1470 come Bernardo Dovizi da Bibbiena. Già presto nella sua vita nel 1488, insieme al fratello Pietro, si legò alla corte fiorentina de’ Medici, e fu un uomo potente in un periodo turbolento per la famiglia medicea. Quando cardinal Giovanni de’ Medici venne esiliato presso la corte urbinate di Guidobaldo de Montefeltro, il Bibbiena lo seguì come segretario: lo scrittore è sempre stato molto fedele alla corte medicea in questi tempi problematici, al contrario del fratello che venne cacciato da Firenze per il suo carattere violento 9. Ad Urbino il Bibbiena ebbe la possibilità di incontrare artisti e scrittori, come ad esempio Bembo, Raffaello e Castiglione. Con quest’ultimo strinse amicizia e non per niente il Bibbiena appare come uno dei personaggi principali nel capolavoro di Castiglione, Il Cortegiano (pubblicato nel 1528). Castiglione scrisse anche un prologo per La Calandria (1513), l’unica commedia scritta dal Bibbiena, e si prese cura della prima rappresentazione teatrale presso la corte urbinate.10

Nel 1513 Giovanni de’ Medici venne proclamato papa, sotto il nome di Leone X: l’elezione fu osannata dal popolo, che sperava tempi migliori e più liberali dopo i pontificati inquieti di Alessandro VI e Giulio II. La proclamazione era stata sicuramente influenzata dal Bibbiena 11. In cambio il nuovo papa ebbe così la possibilità di eleggere il Bibbiena come Cardinale con Santa Maria in Portico Octaviae come cappello

cardinalizio. Questa elezione fu considerata inopportuna, riferendoci a Moncallero (1953) proprio perché il Bibbiena avevo scritto una commedia:

8

Per una bibliografia approfondita sul Bibbiena si veda Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi

da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520). Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953. Moncallero evidenzia nella sua introduzione che oltre

alla sua biografia esiste solamente un’ altra opera completa sul Bibbiena, vale a dire Bandini, A.M., Il

Bibbiena o sia il Ministro di Stato delineato nella vita del Cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena dal Dott. Angelo Maria Bandini., Livorno, 1758.

9 Ibidem, pp. 38.

10 Fossati, Paolo. Nota bio-bibliografica in Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo

Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 9.

11 Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520).

Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp.

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Gli storici moderni giudicano quasi tutti inopportuna l’elezione del Bibbiena, ma noi abbiamo già detto che spesso il loro apprezzamento sfavorevole ha come principale motivo il fatto che il Bibbiena fu l’autore della Calandria per la quale è ritenuto uomo mondano. Il Cavalcaselle si limita a dire: « Non era strano il vedere innalzato alla porpora un uomo la cui fama era apparentemente fondata sulla sua commedia indecente e immorale: la Calandra » (22). Questo giudizio che cerca trovare una attenuante all’elezione del Bibbiena nella poca moralità del tempo è condiviso da molti storici che noi non citeremo, limitandosi a riferire quanto scrive il Pastor: « Anche l’ultimo adornato con la porpora il 23 settembre era indubbiamente un uomo intellettualmente di gran conto (eingeistig hochbedentender Mann), ma di carattere così mondano che la sua elezione è parimenti da biasmare (zu tadeln ist)…12

Il cardinale restò durante il pontificato di Leone X il suo uomo di fiducia ed eseguì alcune missioni diplomatiche in Francia per il papa, la cui politica fu filofrancese.

Il Bibbiena morì all’età di cinquanta anni, il 9 novembre 1520. La causa della sua morte prematura rimane incerta, possiamo considerare le circostanze sospettose: veniva vociferato che il cardinale fosse stato avvelenato perchè aveva troppa

influenza.13

1.2 Dai modelli classici ad un modello nuovo: la commedia dell’Ariosto14

Un argomento d’approfondimento che riguarda la commedia bibbienesca non sarebbe completo senza considerare la sua origine: rivolgiamo l’attenzione brevemente ai classici modelli plautini e terenziani e ad uno scrittore che ha sicuramente cambiato la ricezione del genere letterario della commedia rinascimentale, Ludovico Ariosto (1474-1533). Quest’ultimo fu contemporaneo del Bibbiena e i due commediografi conobbero l’opera reciproca.15

Gli scrittori classici Plauto (±250-184 a.C.) e Terenzio (185-159 a.C) marcano la nascita della commedia latina, basandosi quindi sul modello greco di Menandro. Le loro

12 Ibidem, pp. 368.

13 Ibidem, pp. 499-509. Moncallero riferisce ad alcuni storici, come a.e. il Bandini che sono certi che il

Bibbiena fu avvelenato. Moncallero stesso conclude con l’affermazione seguente (pp. 507): Dopo questi giudizi storici, la questione non può avere che una soluzione. Non si può credere alle affermazioni di veneficio non suffragate da prove, non si può prestare fede agli scrittori che su una semplice espressione del De’Grassis intessono un romanzo, quasi una congiura di palazzo a conclusione tragica. La morte del Bibbiena avvenne per malattia, come scrive l’autore anonimo della Vita di Leone X: il Bibbiena “stomachi languore absumptus est.”

14 Per questo paragrafo è stato fatto uso di informazioni inerenti alla propria tesina di laurea: Wetzelaer,

Aline. I Suppositi: viaggio tra antichità e un’illusione nuova. Università di Groninga, seguitata da professor P. Bossier e dottoressa M.C. D’Angelo, 2008.

15 Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520).

Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp.

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opere furono scritte in versi con una metrica sempre diversa. Nuovo, rispetto alla commedia greca, era la ‘cantica’, cioè le parti del testo che venivamo cantate. Un altro aspetto notevole era la legge dell’unità che consiste in tre elementi:

• l’unità di tempo, la storia si svolge in un certo tempo senza sguardi al futuro o al passato.

• l’unità di luogo, vale a dire che tutta la storia si svolge in un determinato posto che nelle commedie latine normalmente è fuori di casa, spesso in una piazza. • l’unità d’azione: non c’è spazio per altre storie accanto a quella principale. Le

commedie latine erano sempre composte da cinque atti e un prologo.

Le commedie, similmente alla situazione greca, venivano rappresentate durante i ludi romani, i ludi plebeii e gli Appollinares, che erano delle festività religiose e dei giochi per il popolo. Le rappresentazioni durante questi ludi furono accessibili per tutto il popolo: questo fatto implica che anche la comicità dovesse essere accessibile per ognuno, e quindi essere relativamente di facile comprensione. La trama di una commedia aveva dunque sempre più o meno la stessa base: essa trattava di una storia d’amore in cui normalmente la donna sembrava non appartenere ad una nobile stirpe e quindi non essere una partner adatta al marito. Alla fine invece, dopo intrighi e

capovolgimenti, la donna veniva riconosciuta come un’aristocratica. Leggermente diverse sono le trame come quella di I Menaechmi di Plauto, ma anche lì l’ultima scena del riconoscimento era di grande importanza.

Certe virtù morali furono sempre presente nella commedia latina: la fides (la fedeltà), la pietas (la devozione religiosa ed il rispetto per il prossimo), la constantia (la coerenza del comportamento), la gratia (essere grati per quello che si riceve) e infine l’obbedienza ai genitori. Queste virtù dovevano far risaltare il comportamento richiesto nella società romana.

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era onnisciente rispetto ai personaggi ignoranti. Così anche il pubblico veniva coinvolto nella storia, era un complice muto.

L’ultimo elemento comico era quello della pazzia di uno dei personaggi. Spesso questa pazzia era finta e come nella parte sovrastante vale anche qui che l’onniscienza del pubblico e l’ignoranza dei personaggi rendeva la situazione più buffa.

La commedia classica rimaneva per secoli il modello da seguire nell’Europa medioevale. Anche quando nell’Umanesimo le commedie venivano tradotte in volgare e il dialetto guadagnava d’importanza, le trame delle commedie non cambiavano e non c’erano riferimenti alla vita quotidiana dell’Italia contemporanea. Erano semplicemente imitazioni delle rappresentazioni precedenti. Tuttavia questo tipo di commedia aveva un gran successo: se guardiamo per esempio a Ferrara, I Menaechmi venne messa in scena già dieci volte alla corte estense negli ultimi vent’anni del Quattrocento e attraverso la traduzione i modelli plautini rivivevano.

La persona che apportò una modifica in questa tradizione e che segnalava così l’inizio della commedia italiana, fu senza dubbio l’Ariosto16 (1474-1533), lo scrittore della prima commedia nuova, La Cassaria (1508) che venne messa in scena per la prima volta alla corte di Ferrara. Ariosto rimane soprattutto conosciuto per il suo capolavoro, il poema cavalleresco Orlando Furioso (1516-1532), ma scrisse dopo La Cassaria altre quattro commedie: subito dopo nel 1509 venne pubblicata I Suppositi, seguita da Il Negromante (1520) e La Lena (1528), tutte e due scritte prima in versi. Prima di esalare l’ultimo respiro fece delle nuove versioni in versi de La Cassaria e I Suppositi e scrisse la commedia Gli studenti, che rimase incompiuta.

Prima di scrivere le proprie opere, anche Ariosto utilizzò i modelli classici. Gran cambiamento per il teatro fu quindi la prima versione in prosa di La Cassaria: era la prima commedia che aveva un modello deittico, facendo riferimento allo spazio e al tempo virtuale e reale. Se osserviamo lo stile, possiamo notare anche tracce

16

Riverso, Nicla. Il teatro dell’Ariosto tra la tradizione latina e la ‘commedia umana’ del

Seicento.Università di Washington, Seattle, pp. 2.

http://crisolenguas.uprrp.edu/Articles/Il%20Teatro%20dellAriosto%20tra%20la%20Tradizione%20Latin a%20e%20la%20Commedia%20umana.pdf Un fatto interessante è, come indica Riverso, che Ariosto si occupò anche delle rappresentazioni di commedie non sue: “A correzione di quanto detto dal de Sanctis, bisogna osservare che nella corte degli Estensi a Ferrara egli svolse per vari anni il ruolo di praefectus ad

voluptates, cioè

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dell’elemento classico, nonostante la storia si svolga a Ferrara. Ariosto usava sempre esempi antichi e la trama plautina era ancora ben visibile:

Anche nella teoria e nella prassi della commedia cinquecentesca scrivere una commedia nuova non significa allontanarsi dai modelli antichi, bensì proprio trasferire le strutture ed i modi della commedia classica nel mondo rinascimentale, adattando intrecci e personaggi alla sensibilità contemporanea e situando la scena in una città moderna. In molte commedie cinquecentesche però l’apporto originale rimane abbastanza scarso e limitato soltanto a dati esteriori, come l’indicazione della città in cui si svolge l’azione ( oltre evidentemente all’uso della lingua italiana)17

Tuttavia nelle opere ariostesche c’era un’altra specie di comicità rispetto alle commedie plautine, che possiamo considerare come più profonda e complicata. Questo è dovuto al fatto che intanto i valori sociali erano cambiati e poi dobbiamo renderci conto che anche la situazione attorno alla rappresentazione di una commedia era diversa. Nell’impero romano la commedia era messa in scena durante le festività per tutto il popolo, senza esclusione per donne e schiavi. Ariosto invece scriveva le sue opere per la corte estense, il pubblico era quindi ben diverso e soprattutto più colto:

Ariosto scrisse le commedie non solo per divertire il pubblico ma anche per evidenziare gli aspetti negativi della società contemporanea. Le commedie, traendo la loro legittimazione (ossia la

giustificazione del fatto di essere svincolate dalle farse e dai misteri medioevali) dai modelli classici, non potevano sottrarsi che gradualmente ai loro schemi. La corte estense ed il resto del pubblico, che affluiva al teatro nel Palazzo Ducale e che possedeva generalmente una cultura umanistica non trascurabile, avrebbe giudicato male la rappresentazione di commedie non ben giustificabili per la loro impostazione. Ariosto ebbe un compito piuttosto difficile nel conciliare i contenuti etici della tradizione classica con la rappresentazione ironica e caricaturale di situazioni e personaggi del suo tempo e nel fondere materiale attuale e contemporaneo in uno stampo antico ed ‘esemplare’. 18

Accanto all’approccio di Ariosto, ‘imitatio’ della commedia classica con riferimenti deittici, possiamo vedere anche un’altra tendenza nel teatro italiano: appaiano opere che non sono basate sui modelli classici, ma che sono delle invenzioni proprie come La Cortigiana (1525) di Aretino. Sempre di più il teatro si italianizza e sempre di meno è

17A. Stäuble La commedia umanistica del Quattrocento. Firenze, Istituto nazionale di studi sul

Rinascimento, 1968, pp.219.

18

Riverso, Nicla. Il teatro dell’Ariosto tra la tradizione latina e la ‘commedia umana’ del

Seicento.Università di Washington, Seattle, pp. 3.

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importante la base antica, andando così verso un modello comico veramente italiano a partire dalla seconda metà del Cinquecento: la commedia dell’arte.

1.3 La Calandria: una commedia degna del Rinascimento

Solo cinque anni dopo la prima rappresentazione de La Cassaria ariostesca, nel 1513, viene messa in scena per la prima volta La Calandria del Bibbiena. Se l’Ariosto apportò già una modifica nella tradizione di questo genere letterario, possiamo ritenere che il Bibbiena abbia arricchito ancora di più la commedia rinascimentale con delle nuove concezioni della realtà contemporanea: così svanisce progressivamente il prototipo classico ed il Bibbiena costruisce un proprio modello come sostiene anche Paolo Fossati (1967):

Se La Calandria va anche ripensata come uno dei testi che nel ‘500 fu sentito come esemplare, è perchè subito si presenta come tale: del resto il primo critico che ne tracciò pubblicamente il profilo definitivo, in sede letteraria, ancora il Castiglione, insiste proprio sul valore di «modello», che la commedia voleva assumere. Un modello tutt’altro che astratto, però: e qui occore fare ogni attenzione: La Calandria non vuole imporre la nozione fissa e astratta di una propria, più o meno alta, perfezione, non vuole cioè essere conchiusa forma a sé stante. Al contrario, entro quel formalismo di cui si discorreva, transita una nuova visione della realtà, e si arricchisce ed articola sempre più e sempre meglio: lo sviluppo formale che La

Calandria inscena è dinamica progressione, ciclo operosamente condotto innanzi. 19

Laddove l’Ariosto era piuttosto legato al modello latino, il Bibbiena invece creò una commedia più dinamica scritta in un linguaggio prevalentemente boccaccesco. Anche la trama è più complicata rispetto alle opere ariostesche che trattano lo scambio di persone e punta soprattutto maggiormente sull’erotismo: dove l’Ariosto limita ad esempio nella sua seconda commedia I Suppositi lo scambio di persone solo al sesso maschile, il Bibbiena inventa una trama perspicace e piccante con travestimenti di ambedue i sessi. Dopo i due prologhi, uno del Castiglione e uno del Bibbiena stesso che viene scoperto molto più tardi 20, vediamo sviluppare la storia cervellotica dei due gemelli greci Lidio

19

Fossati, Paolo. Nota introduttiva in Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 6.

20 Fossati, Paolo. Nota bio-bibliografica in Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo

Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 9. Fossati evidenzia che edizioni moderne del capolavoro contengono anche, accanto al prologo del Castiglione, un prologo del Bibbiena stesso: “La Calandria va, nelle edizioni moderne, accompagnata da due prologhi: uno, di mano del Castiglione, fu detto in occasione della prima rappresentazione ad Urbino; il secondo è stato scoperto solo di recente. Ed attorno ad esso non pochi dubbi sono sorti, non di paternità, bensí di collocazione: se cioè fosse effettivamente legato alla

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e Santilla: senza sapere di essere gemelli, che sono già stati separati da giovani durante una invasione turca della città Modone, adesso si trovano tutti e due a Roma. Lidio ha passato la sua gioventù in Toscana con il suo servo furbo Fessenio, Santilla invece rimane a Modone, vestita da maschio e chiamata da tutti Lidio, per nascondere il suo vero sesso. Ad un certo punto il mercante fiorentino Perillo porta Santilla (credendo che sia un uomo), la nutrice ed il servo Fannio a Roma, dove questa Lidio femmina deve sposare la figlia di Perillo.

Lidio crede sua sorella morta, ma non smette mai la ricerca di ella, continuando pure a Roma. Durante la sua sosta nella città eterna incontra la ricca padrona romana Fulvia, sposata con Calandro ed i due si innamorano subito. Per andare dalla sua amata senza impedimenti, Lidio si mette i panni femminili e si fa chiamare Santilla, cosicchè il marito scimunito non scopre niente. Questo travestimento crea un effetto collaterale non del tutto positivo: Calandro vede la bella ‘Santilla’ ed il servo Fessenio, per burla, gli promette di farla conoscere. Il divertimento di Lidio e Fessenio è senza fini per questa presa in giro di Calandro.

Intanto Fulvia, per essere sicura dell’amore di Lido, chiede l’aiuto del

negromante greco Ruffo, il quale è per caso un amico di Lidio femmina e Fannio. Ruffo al suo posto è consapevole del fatto che potrà guadagnare tanti soldi con la faccenda, e chiede a Lidio femmina di andare da Fulvia in forma di donna: l’ultima risponde che non ha mai visto o conosciuto questa Fulvia. Tuttavia decide di partecipare e di presentarsi a Fulvia, perché sembra essere un progetto molto buffo. La povera Fulvia non sa più a che santo votarsi, perché da un momento all’altro Lidio (che in verità è Santilla) pare non conoscerla più e chiede di nuovo l’aiuto di Ruffo. Intanto si

incontrano anche Lidio maschio e Lidio femmina, ma non capiscono ancora perché si assomiglianio così tanto e non si riconoscono. I servi Fessenio e Fannio scoprono ben presto che i gemelli si sono ritrovati, ma per buon rispetto tacciono.

(15)

La Calandria contiene degli elementi classici formali: ad esempio troviamo la presenza del prologo, il numero degli atti è cinque ed esiste l’unità di tempo, di luogo e di azione. Anche la trama fa pensare alle commedie dell’Antichità, ma nonostante ciò certi critici letterari hanno un punto di vista diverso, evidenziando un linguaggio e delle tematiche piuttosto di tipo boccaccesco come avviene in Fossati (1967):

E certo il gioco di scena dedotto da Plauto scompare o si attutisce talmente da non aver più ragioni funzionali; l’uniformità e la coerenza del genere sono garantite ora dal Boccaccio, usato come repertorio di soluzioni e di atteggiamenti, persino proverbiali, tanto è norma costante di comportamento; la vicenda non solo si colloca nell’oggi più immediato ma perde la sua astrattezza di costruzione puntando tutto sulle risorse e le reazioni dell’amore come intelligenza e furberia, capacità tecnica e linguistica di proporsi grovigli e di scioglierli.21

Fossati respinge così l’ancoraggio con l’Antichità della commedia bibbienesca. Il giudizio che presenta Moncallero (1953) è ancora più estremo:

La quale somiglianza, come è evidente, non è detto che sia necessariamente tratta da Plauto, potendo pur essere invenzione di qualsiasi commediografo, anche se dei casi che nascono dallo scambio di due personaggi simili si servì ripetutamente il commediografo Sarsina; tanto più che il Bibbiena fa bensì simili i due «scambiati», ma uno uomo e una donna, mentre nei Menaechmi sono dello stesso sesso. Ma tant’è: la tesi della derivazione della Calandria da Plauto è entrata nella storia della letteratura; e gli storiografi e i critici letterari si son fatti un dovere di ripeterla a gara.22

Magari bisogna assumere un’opinione più misurata: anche se indubbiamente La Calandria non è un pallido riflesso in volgare delle commedie classiche, non si può negare completamente la sua forma capostipite antica. Dall’altra parte vediamo un ingegno e un desiderio di valutare e criticare la propria società, come ha fatto anche l’Ariosto, che è nuovo per la commedia. Né i personaggi sono più soltanto prototipi fissi: sono a maggior ragione umani, che fanno la bandiera propria dell’intelligenza e mostrano sia elementi positivi che negativi del loro carattere come indica Moncallero:

21 Ibidem, pp. 7.

22 Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520).

Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp.

(16)

I personaggi della Calandria, e soprattutto Fulvia, Fessenio e Calandro, non sono dunque tipi

convenzionali astratti e indeterminati, ma caratteri drammatici nei quali è vivo l’elemento umano, anche se questo risulta a volte piuttosto rilevato nelle sue passioni, soprattutto nella manifestazione del vizio. Essi s’intonano all’ambiente sociale e locale di cui partecipano, sono espressioni di umanità in atteggiamenti consoni allo spirito della società in cui vivono.23

Proprio questa umanità dei personaggi potrebbe essere vista come l’ancoraggio nella novellistica boccaccesca 24, particolarmente gli elementi del vizio e della furbizia. Il titolo del capolavoro bibbienesco è derivato dal nome Calandrino, un celeberrimo protagonista di alcune novelle del Decamerone.

Concludendo possiamo considerare La Calandria, con il suo prendere posizione tra antichità e realtà contemporanea, una commedia molto intelligente che è degna del pieno Rinascimento.

23

Ibidem, pp. 540.

24 Ibidem, pp. 572-607. Moncallero accenna in queste pagine anche allo studio di Wendriner (1895) che

ha fatto un confrontro tra frammenti del Decamerone e La Calandria e possiamo vedere in modo più dettagliato dove si trovano delle concordanze. Moncallero evidenzia però che La Calandria è un’opera originale, nonostante somiglianze e non bisogna farsi accecare da esse: “Coincidenze, come è evidente, della Commedia con le Centonovelle ed, a volte, senza dubbio, derivazioni dal Boccaccio di espressioni e anche di qualche situazione, ma non tali e tante da pregiudicare l’originalità della creazione del Bibbiena, sia per la condotta della trama, la quale evidentemente, non può non essere che del commediografo, sia per la rappresentazione dei caratteri che sono espressione dello spirito e del costume del Rinascimento, con intonazione personale propria del Cinquecentista; sicchè è ingiusto, ripetiamo, parlare della Calandria come di «copia » del Decamerone, di « testo mosaico » e affermare che « messer Bernardo »

(17)

Capitolo 2: La ricostruzione contestuale operata da Franco Ruffini e la

festa ‘come culmine della cultura’

2.1 Introduzione

Chiunque studi La Calandria del Bibbiena, non può fare a meno di esaminare Commedia e festa nel Rinascimento. La «Calandria» alla corte di Urbino( 1986) di Franco Ruffini. Questo studio si può considerare come la ricerca più profonda, ampia e soprattutto documentata sul Bibbiena e la sua opera principale, sicuramente perché tratta in modo estremamente dettagliato la prima rappresentazione nel 1513 de La Calandria alla corte urbinate. Vale certamente la pena di dedicarci un capitolo intero e di esporre la sintesi dello studio di Ruffini, prima di approfondire il nostro tema principale del travestimento femminile.

Nella sua ricerca Ruffini studia primamente la Stufetta, la stanza da bagno del Bibbiena nel Vaticano, decorata con dipinti e sistemata architettonicamente dal suo amico urbinate Raffaello. Successivamente lo storico dello spettacolo si dedica al testo de La Calandria, ma la parte principale tratta la prima rappresentazione della

commedia, dando un’attenzione molto dettagliata ed accurata al luogo teatrale, gli intermezzi musicali e la scena, ossia a tutte le parti anche materiali della prima recita urbinate. Ruffini rivolge in particolare l’attenzione alla nozione di scena e festa, che vede ‘come culmine di una cultura’25:

Poi c’è la commedia della festa. Il luogo teatrale ne è la cornice primaria. Esso definisce il tempo-spazio fittizio che compone gli elementi costitutivi e ne fonda l’unità. Gli intermezzi sono il primo di questi elementi: perché intrecciati nella commedia, e però «separati», come ci ricorda Castiglione, «inquadrati» già nel tempo-spazio della festa. (…) Si specchia, qui, il teatro che rappresenta, nella festa che mette in scena la sua cornice. Essere nella festa, nella cornice, diventa infine essere in scena: essere scena.26

Ruffini evidenzia però che la festa, come utopia ideale del Rinascimento, non deve sostituire la vita tangibile. Sono due realtà che esistono l’una accanto all’altra, tutte e due con lo stesso valore. A questa idea, e altre particolarità riguardando la prima rappresentazione dell’opera principale del Bibbiene rivolgiamo l’attenzione nel terzo

25 Ruffini, Franco. Commedia e festa nel Rinascimento. La «Calandria» alla corte di Urbino. Bologna, Il

Mulino, 1986, pp. 188.

26

(18)

paragrafo. Il secondo paragrafo si occupa nuovamente del testo de La Calandria in generale, attraverso gli occhi di Ruffini.

2.2 Il meccanismo de La Calandria: la soluzione per il problema di Plauto

Sicuramente contributivo alla nostra ricerca potrebbe essere il capitolo Quadri, segreti e prospettive della «Calandria», in cui Franco Ruffini ha scritto principalmente sul testo stesso de La Calandria. Sorprendentemente Ruffini evidenzia che ‘non è il contenuto che conta.’27 In questa luce Ruffini introduce la nozione di meccanismo:

Questo quadro è il meccanismo. La Stufetta, al suo livello pubblico, era una pinoteca; la Calandria è una macchina. I quadri non vi sono esposti in ordine sparso: si incastrano in esatte coincidenze, iterazioni, specularità, talché lo sguardo è attratto, più che dai singoli elementi, proprio dalla loro concatenazione. Lo scambio ne è la modalità elettiva, il travestimento ( e non solo d’abito) l’inesauribile motore. Si scambiano persone, ma anche caratteri e situazioni: la macchina ha le sue regole di funzionamento, ed è a queste che obbedisce. I quadri vorticano, ed è il loro movimento autonomo che, alla fine è il quadro

complessivo della commedia.28

I protagonisti sono interscambiabili fra di loro e “ciò che viene «messo in mostra» sono solo le possibilità combinatorie di uno schema che le consente, e le impone quasi.”29 La storia in sé non è rilevante, invece il congegno è fondamentale. Il meccanismo della commedia, la ‘macchina’ de La Calandria, funziona talmente bene che di conseguenza la storia diventa imponderabile per il pubblico:

Il meccanismo è talmente ben lubrificato che, più che scorrere, scivola, deborda, afferma il proprio livello di autonomia perfino nei riguardi del suo inventore. La «svista» del Bibbiena (che, a quanto ci risulta, non era stata finora rilevata) ne è un sintomo chiaro. Il meccanismo non produce il prevedibile, ma la sorpresa; le possibilità combinatorie sono elevatissime: insieme ai risultati scontati della norma possono nascere, e nascono, impredivibili eresie.30

Ruffini ha contribuito in questo studio anche alla discussione riguardo all’origine de La Calandria, accennata anche nel primo capitolo: quanto l’opera bibbienesca è una derivazione de I Menaechmi di Plauto? Ruffini tratta questo problema in modo efficace

(19)

e approfondito, per cui propone una soluzione certamente plausibile, che è certamente legata alla nozione di meccanismo, appena introdotta dal ricercatore:

Se i Menaechmi non sono un modello da copiare, ma un problema da risolvere, la Calandria (e proprio per il suo evidente riferimento ai Menaechmi) non è un calco, ma la soluzione.31

La sua ipotesi è che Bibbiena avrebbe usato I Menaechmi come modello da migliorare, per perfezionare la trama secondo i valori rinascimentali e risolvere il problema

plautino. Ruffini punta sul fatto che la commedia di Plauto non è funzionale, perché i protagonisti, i due fratelli gemelli, non si possono mai incontrare in scena: questo significherebbe un’agnizione finale precoce, laddove esiste assolutamente la necessità del segreto. Il Bibbiena ha creato il proprio risolvimento, modificando la trama assai senza vituperare l’intreccio plautino, come dichiara Ruffini:

Non si tratta di affermare in generale il «gioco della ragione» e quindi di costruirne un esempio: si tratta, invece, di risolvere un problema specifico posto dalle specifiche circostanze di dovere scrivere una commedia e di doversi misurare con la questione dell’imitazione plautina. (…) L’intercambiabilità del sesso, del nome, il labile statuto di ogni identità e tant’altre cose ancora che pure sono nello schema d’invenzione bibbienesco, non vi sono in quanto postulati (anche se ne sono, inevitabilmente, il riflesso) di una «concezione del mondo», ma in quanto elementi strutturali della soluzione adottata verso il concreto problema da risolvere.32

Con quest’affermazione Ruffini può ritornare all’ipotesi iniziale di questo capitolo: La Calandria è un meccanismo, non una semplice commedia prevedibile, ma una

narrazione strutturata e calcolata. Ruffini punta in questa luce sulla separazione di funzioni strutturali. Con queste funzioni intende “l’invenzione dello schema, il piano di personaggi e situazioni, la scrittura delle parole”33. Le funzioni nominate sono

indipendenti fra di loro, come afferma Ruffini, anche se provvedono allo stesso tempo ad un’unità e non si possono vedere le funzioni come fatti isolati. E così, con

l’importanza del meccanismo, il concepimento bibbienesco è in grado di offrire una nuova sfida alla commedia rinascimentale:

31 Ibidem, pp. 118. 32 Ibidem, pp. 120. 33

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La Calandria, offrendone la soluzione, indica il vero problema della commedia. Ideare meccanismi; non solo narrare ma soprattutto organizzare il materiale narrativo. La vittoria della Calandria è la sfida del futuro della commedia.34

2.3 Il luogo teatrale come utopia antica

Anche i capitoli seguenti di Ruffini, e a maggior ragione i due che trattano il luogo teatrale e la scena, sono particolarmente interessanti per il nostro studio, per la dettagliata descrizione della prima rappresentazione de La Calandria. Infatti, lo scenografo del primo spettacolo fu il contemporaneo urbinate del Bibbiena, Girolamo Genga (1476-1551). Il filo conduttore nelle analisi di Ruffini è che la sala e la scena decorata da Genga, non sono luoghi qualsiasi e Ruffini evidenzia che ogni parte del decoro ha il suo ruolo distintivo:

Il Salone del Trono è il luogo della festa: non il contenitore della rappresentazione. Nella festa, come tempo-spazio ideale, ciò che perde di consistenza sono i nessi del tempo e dello spazio reali. Si perde la linearità del tempo e, dello spazio, si perdono i rapporti topologici e quello di maggiore a minore. La sala reale contiene lo spettacolo, è vero, così come la scena è contenuto nello spettacolo. Però nella festa (e

non nel discorso che la parla) sala spettacolo e scena non si correlano secondo questo rapporto di

contenente a contenuto. Semplicemente si equivalgono: come elementi paritari, e ciascuno integralmente rappresentativo.35

Come vediamo qui evidenziato, bisogna vedere la sala come una specie di realtà36 accanto alla realtà quotidiana, sala e festa sono sullo stesso livello. Entrando nella sala, si entra in un altro mondo e un’altra epoca:

La transizione nel tempo-spazio ideale della festa si spazializza come ingresso nella città, nell’insieme dei valori che essa e il suo pensiero rappresentano. È la città perfetta, per definizione, radicata in un antico senza tempo, eterna perché i dati della sua concretezza sono quelli di un modello.37

Ed è questa l’ipotesi centrale di Ruffini: la nozione di festa costruisce l’idea di una città antica. La sala è come la città ideale della cultura rinascimentale, in cui prevale il

34 Ibidem, pp. 172. 35 Ibidem, pp. 178-179. 36

Ruffini sottolinea con chiarezza l’uguaglianza delle due realtà: “La festa è un prodotto della cultura, non viene dalla disillusione della realtà; è una proiezione progettuale che postula dei valori, non li estrae per confronto dal vivere concreto. La festa è l’insieme di sigle e di valori in cui la cultura si riconosce (e viene riconosciuta) in quanto tale: non una realtà sublimata ma una realtà altra.” (pp. 189)

37

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ricupero dell’antico che viene visto come utopia. Senza dubbio gli arazzi con storie di Troia e delle iscrizioni in latino che si trovano nella sala, hanno un ruolo principale nel rendere quest’illusione ancora più potente: funziona come una soglia verso un altro universo, cioè un mondo utopico in cui è radicato l’antico. L’esempio ideale di una città eterna è Roma e non senza ragione, nella scena, il legame tra Roma ed Urbino è

simbolico 38. Roma è per antonomasia la città utopica, indistruttibile e questa nozione di utopia viene sottolineata un’altra volta da Ruffini:

Sala-città, sala-teatro: scena-città e, certamente (ma in senso molto più profondo di quanto possa ora apparire), scena-teatro. Veramente, l’unità dell’apparato appare condotta non sul filo della ricerca formale di un continuum, ma su quello di un’istanza ideal unificante, che è il raffronto della corte ad un passato (l’antico) come garanzia etica e teorica per la propria modellizzazione. L’antico come utopia: cioè l’utopia come antico.39

Il luogo teatrale deve essere riguardato come un insieme omogeneo ed in questa unità è coinvolto anche il pubblico, che si trova nella sala. Inerentemente il pubblico,

trovandosi nella sala, è integrato nella festa e nell’utopia e fa parte di questa armonia. Secondo Ruffini significa che “(…) il teatro – in quanto luogo della festa – prima che spazio entro cui guardare, è lo spazio al quale guardare.”40

La festa urbinate coinvolge quindi vari elementi ed il teatro non è solo teatro, ma pare essere una piccola città, come Ruffini ha saputo spiegare con molta chiarezza nella citazione sottostante:

La sala si fa teatro non per il fatto che vi si svolge lo spettacolo, ma perché la sala è intrinsecamente luogo di celebrazione. (…) L’identificazione sala-città è solo un momento, anche se fondamentale, nella strategia di significazione della festa urbinate. La città, simbolizzata dalla sala, apparirà nel suo

significato privilegiato, nella scena (cfr. cap. V), e verrà materialmente finta come spazio per gli spettatori costruendo un secondo muro in mezzo alla sala, a riscontro di quello dipinto nel sottopalco.41

38 Ruffini spiega: “Del resto, tutto l’orientamento mentale della festa è verso Roma; l’associazione con la

città eterna è evocata in ogni elemento dell’apparato; e non appare affatto improbabile che essa sia stata sancita anche evidenziando nella scena di Roma la citazione per eccelenza del Palazzo Ducale e cioè di Urbino. Come a dire che Urbino, legata a Roma per il suo destino (si ricordino le vicende della

successione papale), le è legata anche per I contrassegni della sua identità e della sua dignità.” (pp. 267)

39 Ibidem, pp. 184. 40 Ibidem, pp. 252. 41

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Capitolo 3: Il soliloquio femminile

3.1 Introduzione

In questo capitolo ci concentreremo sul monologo femminile ne La Calandria del Bibbiena, di cui questo capolavoro fornisce vari esempi, con monologhi dei nostri personaggi principali Fulvia e Santilla. Perfino la serva di Fulvia, Samia, ha

l’opportunità di esternare qualche giudizio: il Bibbiena risulta aver affidato una voce ai suoi personaggi femminili. Alla fine di questo capitolo rivolgeremo l’attenzione ad un esempio del monologo maschile (di Fessenio, lo schiavo di Lidio) come una specie di controesempio.

I frammenti citati, che contengono un soliloquio femminile, hanno un carattere, che si può definire soprattutto come lamentevole. Questo è in contrasto con il prologo del Bibbiena stesso, in cui viene sottolineato la tematica dell’astuzia femminile, sulla natura della donne che è furba e gioconda: l’intelletto muliebre viene usato per beffe, allo scopo di imbrogliare i mariti che pensano di valere di più. Al prologo dirigeremo l’attenzione più profondamente nel terzo capitolo, nel quale sarà anche di importanza il legame tra quest’astuzia nominata e la tematica principale della presente tesi, la veste femminile nella commedia primocinquecentesca.

Queste lamentele sono quindi un elemento consistente ne La Calandria, ed i personaggi femminili si possono considerare delle eroine tragiche42. Questo tipo di monologo non è un fatto a sé stante, se ci riferiamo a Cosentino (2006):

Come dimostrano gli esempi addotti fin qui, il genere tragico diviene la sede privilegiata per la messa in scena di un mondo animato da affetti e da passioni esasperate che tuttavia veicola un’ideologia

‘‘femminile’’ altrimenti destinata a soccombere. Concedendo spazio a quella riflessione sulla condizione muliebre che permea molte delle opere cinquecentesche e facendo proprie le argomentazioni della trattatistica coeva, la tragedia sembra adombrare un universo magmatico e sfuggente di cui sottolinea la violenza recondita, spesso rivolta verso gli elementi più deboli della società: si pensi, ad esempio, all’ottica decisamente ‘‘altra’’ attraverso la quale viene presentato il matrimonio, spesso oggetto di una

42 La nozione di ‘eroina’ è stata presa da Cosentino (2006) che considera le donne citate nello suo studio

delle vere eroine: “Dotate di una virtù femminile che implica forza e determinazione, queste donne sembrano possedere quelle caratteristiche che in genere si attribuiscono agli uomini. L’eccezionale energia di cui si fanno portatrici è la testimonianza di un coraggio fuori dal comune, che da virtù rischia talvolta di trasformarsi in vizio.” Cosentino, Paola. “Tragiche eroine. Virtù femminili fra poesia drammatica e trattati sul comportamento.”Italique, n. 9, 2006, pp. 69-99, pp. 71.

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satira declinata al maschile che ne mette in evidenza tutti le limitazioni e le difficoltà, sovente determinate dai ‘‘donneschi difetti’’. Assai lontana dalla protagonista, scaltra, ardita o patetica della commedia, la dolente moltitudine di eroine tragiche che popola il nostro teatro rinascimentale dà voce a una lamentatio esistenziale modellata sull’elemento topico antico che tuttavia veicola contenuti nuovi, strettamente legati alla necessità di costruire un sistema drammatico capace di enunciare le verità dimenticate dalla storia e di dare voce, o meglio, forma a un eroismo di segno femminile.43

Il monologo femminile pare essere un fenomeno conosciuto in questo periodo, e non solo nel teatro italiano.44 Come funziona il soliloquio femminile di preciso ne La Calandria? Nei paragrafi seguenti cerchiamo di analizzare più profondamente tale fenomeno discorsivo ed attorico in base ai principali personaggi femminili.

3.2 Santilla: un grido per il sesso femminile

Una vera eroina la si può considerare la ragazza greca Santilla, che mostra il suo coraggio durante tutta la sua vita, andando per strada in abiti maschili per salvarsi dalla morte. Il suo travestimento è anche la causa della sua infelicità, ossia non poter

mostrarsi come donna. I suoi monologhi sono caratterizzati da lamenti sulla miseria per la sorte femminile e sulla disuguaglianza tra i due sessi. Già la prima scena in cui appare (Cal., II,1), la ragazza si esprime in un monologo, e pare rivolgersi direttamente al pubblico, chiedendo così commiserazione per il sesso femminile: “Ed io or vi dico che, quando fussi maschio come son femina, sempre in tranquillo stato ci

viveremmo.”45 Secondo Santilla i suoi problemi derivano soltanto dal fatto che ella è donna, il mercante Perillo è contentissimo con la persona che crede maschio, mentre se fosse stata una ragazza, non l’avrebbe mai accettata. Spiega la sua situazione miserabile in modo più profondo nella scena Cal., II, 8. Non esiste via di scampo per la povera ragazza; non può rivelare la sua vera identità, ma non può nemmeno sposare la figlia di Perillo, perché la famiglia scoprirebbe subito che ella li ha ingannati.

L’ultimo suo soliloquio si trova in Cal., IV, 5, ed è un esempio chiaro del carattere tragico di Santilla, soprattutto la prima frase che si può definire come un grido per il sesso femminile, una espressione chiara di disuguaglianza: “Oh infelice sesso

43

Ibidem, pp. 90.

44 Ad esempio Émile Picot ha dedicato una parte del suo studio al monologo nel teatro francese ai

‘Monologues d’amoureux’ come categoria specifica. Picot, Émile. Le monologue dramatique dans

l’ancien théatre français. Genève, Slatkine Reprints, 1970.

45

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femminile, che, non pure alle opere, ma ancora ai pensieri sottoposto sei!”46 Il Bibbiena ha fatto una dichiarazione assai forte sullo stato femminile, usando la parola

‘sottoposto’. Forse ha voluto affermare così anche la differenza sessuale nel mondo contemporaneo, in cui l’uguaglianza non era comune.47 Interessante è il fatto che un altro personaggio minore de La Calandria, la serva Samia, riferisca anche con la parola ‘sottoposte’ alla condizione delle donne. Ella dichiara invece che questa sottomissione femminile è un assoggettamento all’amore stesso e non al sesso maschile: “Oh povere e infelici donne! a quanto male siamo noi sottoposte quando ad Amore sottoposte siamo! Ecco, Fulvia, che già tanto prudente era, ora di costui accesa, non cognosce cosa che si faccia.”48 Fra l’altro non troviamo più un atto di accusa da parte di Samia, dopo questa affermazione. Trae vantaggio dell’assenza della padrona per divertirsi con l’amante (Cal., III, 8).

3.3 Fulvia: in cerca di vantaggi personali

Una seconda analisi del soliloquio femminile è dedicata al personaggio della ricca padrona romana Fulvia. Il suo primo vero monologo si trova nella scena Cal., III, 5, in cui critica la sua posizione di donna e la corrispettiva libertà di manovra limitata: si lagna della fortuna muliebre, è tutta disperata del fatto che non può uscire senza restrizioni come sono in grado di fare gli uomini. Nonostante questo atto di accusa, il suo grido per uguaglianza tra i sessi è molto meno forte in confronto con Santilla, i loro monologhi hanno la stessa tematica, ma non completamente la stessa natura: il lamento di Santilla pare essere più onesto, un’invocazione per tutto il sesso femminile, mentre Fulvia è più furba e tiene in mente soprattutto la propria posizione. La sua infelicità (oltre al fatto che teme di perdere il suo amante Lidio) deriva fondalmentalmente dal suo matrimonio infelice. Questo viene chiarito ad esempio nella scena Cal., II, 10 quando Fulvia dice dopo una conversazione con Calandro fra sé e sé: “Va in pace, col mal anno. Guarda che vezzoso marito mi detteno li frategli miei! che mi fa venire angoscia pure a vedello.” (Cal., II, 10) 49. La tematica della moglie infelice non è un caso particolare, se ci riferiamo a Stäuble (2009):

46 Ibidem, pp. 81. 47

Per una spiegazione più approfondita sul fenomeno dello stato femminile nel Rinascimento si veda Maclean, Ian. The Renaissance notion of woman: a study in the fortunes of scholasticism and medical

science in European intellectual life. Cambridge University Press, Cambridge, 1980.

48 Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 60. 49

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Il lamento di Fulvia riguarda la condizione femminile in genere, ma anche la sua personale situazione in quanto «malmaritata» (con l’imbecille Calandro, nome chiaramente derivato da Calandrino): una tematica cara al Medio Evo. Nelle commedie rinascimentali sono numerose le malmaritate, che reagiscono in maniere diverse. Alcune, quando vengono sedotte con uno stratagemma o con violenza o per circostanze casuali, si adattano e accettano (anche volentieri) la nuova situazione; fanno insomma di necessità virtù o, per usare parole di Boccaccio, «saputo avevan pigliare il bene che Idio a casa l’aveva mandato» (II 3, 2)50

E certo che Fulvia sa sfruttare la situazione in modo molto boccaccesco: proprio perché è infelice del suo matrimonio, ha un motivo per ingannare il marito e divertirsi con Lidio (giacché “Non è dolor pari a quello de una donna che si trova aver perso la sua giovinezza in vano.”51).

Il secondo monologo di Fulvia si presenta in Cal., III, 7: di nuovo viene espresso il suo pensiero su come procedere nella sua ricerca d’amore. Non si tratta di un lamento generale come nel caso di Santilla, ma viene riferita alla propria situazione. In questa scena la padrona romana decide di fare l’ultimo passo verso il travestimento. Anche nel soliloquio in Cal., IV, 1 ha principalmente pietà per se stessa e, per comodità

dimenticando che ella stessa truffa degli altri, lamenta: “oh ingannata e infelice Fulvia (…)”52. Parla pure di uccidersi, perchè non potrebbe sopportare una posizione umilitata, essendo offesa dallo Spirito.

L’ultimo monologo di Fulvia in scena Cal., V, 6, afferma l’ipotesi che questo personaggio furbo abbia cercato soprattutto dei vantaggi personali e risulta anche averli trovati: “E il fine del periculo presente mi porta incredibile iocundità; perché, non pur ha salvato l’onore a me e la vita a Lidio, ma sarà cagione che con lui potrò essere più spesso e più facilmente.”53 Trionfa l’astuzia femminile sulla sfortuna e schiocchezza del marito. Chiaro è che i monologhi di Fulvia hanno avuto certamente un altro scopo di quelli della onesta Santilla: bisogna sempre beneficiare se stessi.

3.4 Fessenio ed il monologo maschile: un controesempio

Come abbiamo visto, La Calandria contiene delle illustrazioni chiare del monologo femminile di vari personaggi. Queste figure sono provenienti da diversi strati della

50

Stäuble, Antonio. “Antecedenti boccacciani in alcuni personaggi

della commedia rinascimentale”. Università di Losanna, Quaderns d’Italià 14, 2009, pp. 37-47. http://www.raco.cat/index.php/QuadernsItalia/article/view/143963/195663, pp. 43.

51 Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino, Einaudi, 1967, pp. 59. 52 Ibidem, pp. 75.

53

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società, pure per una semplice serva il Bibbiena crea una voce, che ha la possibilità di esprimersi sullo stato femminile. Per i personaggi maschili invece, il Bibbiena non ha costruito queste ‘voci’ esplicite per commentare la contemporaneità, l’unico a rivelare i suoi pensieri in veri monologhi è Fessenio, lo schiavo di Lidio, ma possiamo

considerare che questi soliloqui abbiano una diversa natura di quelli femminili. Prima di tutto dobbiamo avere in mente quali caratteristiche possiede un personaggio come Fessenio nella commedia cinquecentesca. Il servus callidus, ovvero lo schiavo astuto apparteneva originariamente alla commedia greca, ma venne

introdotto da Plauto nella commedia latina. Dopo il successo nella commedia antica, questa figura venne valutata di nuovo in modo positivo nel teatro del Cinquecento. Il servus callidus è un personaggio soprattutto furbo e alle volte cinico, ma infine sempre molto fedele al suo maestro. Spesso è egli ad inventare gli intrighi, ma ha anche un ruolo chiave, portando la storia sempre alla sua soluzione. È facile riconoscere il nostro Fessenio in questa descrizione: furbo e coraggioso (la sua parola personale si può definire come ‘astuzia’), sa sempre creare delle scene comiche perché ha un desiderio insaziabile di ridere e mettere in ridicolo delle persone con un intelletto minore, come ad esempio il personaggio scimunito di Calandro. Magari è il personaggio con la maggiore importanza, sembra essere onnipresente e onnisciente. Non sorprende quindi che questa figura dello schiavo è l’unico dei personaggi maschili che si esprime di tanto in tanto in soliloquio.

Fessenio appare per la prima volta nella scena iniziale del capolavoro

bibbienesco (Cal., I, 1), in cui ripresenta la trama (che viene esposta dal Bibbiena stesso nell’Argumento) in modo più ampio. Lo schiavo dichiara nelle stesse righe la sua centralità come figura in questa commedia: “Nessuno potette mai servire a due ed io servo a tre: al marito, alla moglie e al proprio mio padrone; in modo che io non ho mai uno riposo al mondo.”54 A queste tre personaggi nominati dallo schiavo, possiamo anche aggiungere un quarto: Fessenio serve anche noi, il pubblico, al cui si rivolge spesso direttamente, un esempio molto chiaro è Cal., III, 1: “Ecco, o spettatori, le spoglie amorose.”55. Nella stessa scena usa di nuovo il legame diretto con il pubblico: “Nessuno vuol le veste? no?Addio, dunque, spettatori. Andrò a congiungere il castron con la troia. Restate in pace.”56 In varie occassioni Fessenio ha nei suoi monologhi la

54 Ibidem, pp. 24. 55 Ibidem, pp. 52. 56

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possibilità di dividere i suoi commenti con gli spettatori ( ad esempio in Cal., III, 11, Cal., III, 13 e Cal., V, 11). Come nella scena inziale, anche nell’ultimo episodio della commedia (Cal., V, 12) le parole conclusive vengono espresse dallo schiavo:

“Spettatori, le nozze si faran domane. Chi veder le vuole non si parta. Chi ‘l disagio dell’aspettare fuggir cerca a sua post se ne vada. Qui, per ora, altro a far non se ha. Valete e plaudite.”57 Vediamo che Fessenio sembra un’istanza narrativa che fa parte del testo e allo stesso tempo del mondo contemporaneo.58

Con questo essere sia all’interno (come personaggio) che all’esterno del testo (come narratore), si può ipotizzare che Fessenio funzioni come eco del Bibbiena stesso. Anche Moncallero afferma che questo prototipo dell’intelligenza cinquecentesca potrebbe ben rappresentare la voce personale dell’autore:

Fessenio, una delle creazioni più caratteristiche del teatro del Cinquecento nella sua indiscussa originalità, è la figura vagheggiata dall’autore, l’incarnazione della più prepotente sua affettività, è una parte dell’anima di Bibbiena, temperamento d’artista dalla disposizione comica la quale si manifestava anche nelle ambascerie tra i gravi affari di stato, signore della facezia nelle corti più brillanti del secolo, come ce lo presenta il Castiglione nel « Cortegiano », ma ancora, come Fessenio infaticabile e scaltro, come quando era consigliere di Giulio e ministro di Leone del quale era anche il disinvolto amico.59

Concludendo possiamo porre che, anche se il Bibbiena ha creato dei monologhi per un personaggio maschile, l’enfasi si trova sul soliloquio femminile, che ha un carattere

57 Ibidem, pp. 96.

58

La doppia funzione di un personaggio, l’essere all’interno ed all’esterno del testo, fa pensare a Bossier, Philiep. “Embedded Ambivalence. The example of dynamic stock characters in Italian Renaissance comedy”. Da: Akteure und Aktionen. Figuren und Handlungstypen in Drama der frühen

Neuzeit. A.c.d. C. Meier, B. Ramakers, H. Beyer, Münster, Rhema, 2008.In questo articolo l’autore spiega come tre personaggi del teatro cinquecentesco, il pedante, il parassita ed il prologo, hanno una funzione narrativa in più rispetto a quanto pare a prima vista: “An interesting focus for our attention is some of the striking characteristics of the theatrical prototypes which are elements of this Italian text production. Within a broad but nevertheless repetitve standard setting of characters in this new kind of comedy, some characters seem to function between the borders of a very >elastic< outline of their >definition-in context<. As a result, they are more flexible in their >stage<behaviour. They also seem more difficult to encapsulate in a simple, one-dimensional interpretation of them in terms of the kind of human being they represent on stage. Moreover, they are, to a large extent, responsible for an appeal to the audience designed to achieve much more than a superficial, basic and exclusively linear reception of the events represented on stage. In short, in framing a very dynamic presence, both their physical movement on stage and between the lines of the written text, these particular prototypes can be pictured as mirroring the various levels of interpretation being produced throughout the Italian Renaissance.” (pp. 158-159.) Non viene nominato il personaggio dello schiavo astuto, magari perché il servus callidus è una figura della commedia antica, ma in questo contesto possiamo constatare anche questa doppiezza in vedere Fessenio. Sarebbe veramente interessante come si è sviluppato questo personaggio, e in quanto vale la teoria di Bossier per Fessenio.

59 Moncallero, G.L., Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, umanista e diplomatico (1470-1520).

Uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti. Firenze, Leo S. Olschki, 1953, pp.

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Capitolo 4: Il travestimento femminile

4.1 Funzioni letterarie del travestimento femminile

In questo capitolo il tema centrale sarà il travestimento di due figure femminili che sono principali ne La Calandria di Bibbiena, la padrona romana Fulvia e la ragazza greca Santilla. Analizzeremo il loro mascheramento in particolare, basandoci su alcuni

frammenti che sono stati scelti per il corpus e che forniscono un buon punto di vista per lo sviluppo del loro travestimento.

Prima di tutto rivolgiamo l’attenzione allo studio Wenn Frauen Männerkleidung tragen. Geschlecht und Maskerade in Literatur und Geschichte (1997), che è ricco di profonde intuizioni sul travestimento femminile. Gertrude Lehnert evidenzia il fatto che il camuffamento muliebre nella letteratura non è il risultato di una crisi d’identità, oppure la volontà di ottenere caratteristiche maschili, ma nasce a causa di una situazione d’emergenza:

Denn die Verkleidung ist nur aus Not, nicht aus Neigung entstanden und von vornherein nicht als dauerhafte Maskerade gedacht. (…) Diese Position ist typisch für die als Männer verkleideten Frauen in der Literatur, zumal in der Zeit vor dem 19. Jahrhundert. Sie verkleiden sich nur dann, wenn ihnen kein anderer Ausweg aus einer Notlage bleibt, die allerdings nicht vergleichbar ist mit jenen existentiellen Notlagen, aus denen sich wirkliche Frauen zuweilen als Männer ausgaben. Die jungen Frauen in der Literatur müssen entweder vor einer Gefahr fliehen, oder sie müssen einen verschollenen Liebhaber suchen.60

Come vedremo dopo, tutte e due le possibilità che ci offre Lehnert, (il travestimento per fuggire da un pericolo o il travestimento per andare a trovare un amante nascosto), sono presenti ne La Calandria. Viene chiarito che dopo il mascheramento la donna ridiventa donna, non esiste in questo modo una perdità dell’identità femminile, ma forse un rafforzamento della femminilità:

Man war damals der Ansicht, Frauen könnten ihr Geschlecht leichter wechseln als Männer, denn ihre Geschlechtsidentität galt als biologisch einigermaßen fragil, da sie noch nicht zum Männlichen hin vollendet war. Aus der Renaissamce sind mehrere Geschichten überliefert, in denen ein Mädchen sich in einen Jungen verwandelte. Solche »Fälle« bestätigten, was man ohnehin von der menschlichen

60 Lehnert, Gertrud. Wenn Frauen Männer kleider tragen. Geschlecht und Maskerade in Literatur und

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Geschlechtsentwicklung »wußte«, nämlich daß »Männer aus den Frauen hervor- oder durch einen weiblichen Zustand hindurchgehen«. Die vorgeblich relativ häufigen Geschlechtsumwandlungen von Frauen in Männer konnten also als ganz natürlicher Entwicklungsvorgang gedeutet werden, bei dem die eigentlichen Männlichkeit der Person, im Grunde immer schon vorhanden , sich erst verspätet entfaltet. Somit findet keine wirkliche Geschlechtsumwandlung statt, sondern nur eine Entwicklung hin zum »eigentlichen« Geschlecht.61

4.2 Inganno ed astuzia: mascheramenti nel Prologo

Il nostro tema principale è la veste femminile, ed il travestimento delle due protagoniste Fulvia e Santilla è in questo caso estremamente interessante. Prima di indagare i loro mascheramenti, osserviamo ancora una volta con attenzione il Prologo, scritto dal Bibbiena stesso. Salta all’occhio che lo scrittore punta ripetutamente sulla veste femminile: nonostante il fatto che la tematica principale in questo prologo, del quale non è certo se è stato scritto per la commedia in questione62, si possa definire come l’astuzia muliebre, il vestirsi in sé ha un ruolo importante. Lo scrittore descrive un suo sogno in cui prende in bocca l’anello di Angelica63 per “(…) vedere tutte le donne di Firenze quando si levano: e forse che i’ non arei potuto farlo, potendo andar per tutto senza esser veduto!”64. Egli entra così in diverse case, dove è testimonio di situazioni tra mariti e moglie in disuguaglianza da una parte, e dall’altra parte di momenti in cui donne si vestono e si truccano. Lo scrittore esprime chiaramente la sua opinione sul trasformarsi esteticamente nella speranza di essere più belli:

-Diacin ne vadia, con tanto lisciarsi!- diceva io fra me medesimo: -può egli essere che queste meschine non si accorghino che, per voler parer più belle, si fanno maschere e si guastan la vita ed invechiano dieci anni inanzi al tempo e diventano grinze e isdentate o vero co’ denti s’sudici e lordi che sarebbe manco schifo a baciar loro…presso che io non dissi qualche mala parola… che baciar loro la bocca? Quante ne è qui che, cariche di panni e del mal che Dio die loro, stanno intirizzate come statue e non si possan

61 Ibidem, pp. 69-70.

62 Fossati, Paolo. Note in Dovizi da Bibbiena, Bernardo. La Calandria, a.c.d Paolo Fossati, Torino,

Einaudi, 1967, pp. 100: “Seguiamo anche noi i moderni editori che dànno, accanto a quello del Castiglione, il prologo rinvenuto da Isidoro del Lungo il secolo scorso. Nulla indica che potesse esser legato alla Calandria, come s’è detto nella nota introduttiva: e se ne potrebbe perciò dare il testo in appendice. Ma, tenuto conto della natura letteraria della commedia, la tematica boccacciana che il testo esemplifica e la dichiarazione di poetica, come comportamento immaginativo, che offre sembrano una ottima ragione per farlo precedere, come una sorta di premessa ideale.”

63 Il Bibbiena fa riferimento alla protagonista femminile dell’Orlando furioso (pubblicato in versione

definitiva nel 1532) dell’Ariosto, che possiede un anello magico che rende il proprietario invisibile.

64

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muovere, scoppiano di caldo e di affanno, per parer belle! Le s’ingannano, perché belle son tenute quelle che né poco né molto le lor persone procurano.65

Dichiara che le donne che si truccano per avere un aspetto migliore, si ingannano: la sua critica morale è che non sono la veste ed il trucco a rendere una persona bella.

L’inganno sembra essere la parola chiave in questo contesto: si potrebbe supporre che esista un legame tra il mascheramento femminile (ovvero l’inganno, perché mascherarsi è una forma di imbroglio come conferma lo scrittore) e l’astuzia muliebre. Le donne non sono mai quello che paiono, ingannano con l’aspetto ed allo stesso tempo fregano i loro marito con l’intelletto e l’acutezza, ad esempio nella citazione sottostante:

Il buono uomo, per non sentir quel pianto tutta notte, e non sapendo come potessi giovare al figliuolo, si uscì di casa e dette campo franco alle moglie, più aveduta e più savia di lui.66

Lo scrittore usa più volte la parola ‘savia’ riguardo alle donne; anche quando la loro posizione è più umile di quella del marito, infine è la donna a vincere per via della sveltezza della mente che il Bibbiena conferma “–Oh quanto mi risi di questa astuzia da donne!”67 Un’ipotesi possibilmente valida è che la veste femminile rappresenti un mascheramento della vera persona e quindi anche dell’acutezza: anche se non è sempre chiaro a occhio e croce, la donna ha la possibilità di superare l’uomo al livello di sagacia.

4.3 Sorpassando la libertà di movimento

Per tutti e due i nostri personaggi principali femminili, Fulvia e Santilla, vale che il loro sesso limita la loro libertà di manovra. Questo vincolo è visibile in modo migliore nella situazione di Santilla: un’illustrazione è Cal., II, 8, in cui ella presenta le proprie

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