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‘Noi c’eravamo sempre. Peccato che nessuno se ne accorgesse’: L’inesperienza e la memoria degli anni Settanta dal punto di vista dell’infanzia nel cinema italiano contemporaneo

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‘Noi c’eravamo sempre. Peccato

che nessuno se ne accorgesse’

L’inesperienza e la memoria degli anni Settanta dal punto di vista

dell’infanzia nel cinema italiano contemporaneo

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2 In copertina: Daniele Luchetti, reg., Anni felici, Babe Film 2013, [00.34.01].

‘Noi c’eravamo sempre. Peccato che nessuno se ne accorgesse’: L’inesperienza e la memoria degli anni Settanta dal punto di vista dell’infanzia nel cinema italiano contemporaneo

Rachelle Melanie Gloudemans

numero di matricola: 10192042 Tesi di laurea in rMA Literary Studies

rachelle.gloudemans@gmail.com Relatrice: M.B. Urban

Università di Amsterdam Correlatore: E.A. Baldi

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4 Indice

Introduzione: gli anni Settanta fra memoria rimossa e iper-esposizione 6

1. Una non-storia degli anni Settanta: la memoria fra mediazione,

inesperienza e infanzia 13

1.1. L’inesperienza fra narrazione pubblica e memoria privata 14

1.2. Il ritorno all’infanzia e l’io memoriale 24

1.3. Storia o non-storia: gli anni Settanta oltre il discorso collettivo 29 2. ‘L’innocenza rivoluzionaria’ dell’infanzia e il punto di vista del bambino 32

2.1. Vedere ed essere visti: ‘gli spettatori muti’ in Anni felici 34

2.2. Lo sguardo ostacolato del bambino in La prima cosa bella 39

2.3. Il bambino miope in La kryptonite nella borsa 44

3. Gli spazi per la ribellione: il bambino contro gli anni Settanta 51

3.1. I rapporti famigliari e il bambino diseredato 52

3.2. Il rifugio felice: gli anni Settanta fra non-luoghi e utopie 63

Conclusione 71

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6 Introduzione: gli anni Settanta fra memoria rimossa e iper-esposizione

In Un paese senza (1980), Alberto Arbasino previde il carattere traumatico della memoria collettiva degli anni Settanta e la difficoltà di fare i conti con gli ‘anni di piombo.’ Ancora in mezzo alle vicende del terrorismo, lo scrittore sostenne che ‘[i]l terrorismo sarà drammatico, sarà tragico, sarà una tragedia nazionale lunghissima, intensamente sofferta da tutti come quelle tragedie interminabili dell’età barocca […].’1

Infatti, nel terzo millennio il terrorismo degli anni Settanta si è mostrato un tema ricorrente che suscita ancora discussioni, ricerche e (re-)interpretazioni in vari ambiti della società, in particolare nella letteratura e nel cinema, ma anche più spesso in graphic

novel e blogs.2 Mentre alcuni studiosi, come Ruth Glynn e Andrea Hajek, hanno definito

il trauma del terrorismo come un aspetto rimosso della memoria collettiva italiana, questa tendenza dimostra che nell’ambito culturale si ha tuttavia tentato di liberare gli anni Settanta da un tale tabù memoriale.3 Continuando il suo discorso in modo

provocatorio, Alberto Arbasino anticipò la questione della (post-) memoria rimossa oppure ‘iper-esposta’ degli anni Settanta:

Ma è interessante, o è ripetitivo e noioso, noioso come la sua letteratura, i suoi documenti, i suoi scritti? Si può morire di una malattia noiosa. Anzi di solito si muore per malattie noiose; e che sia il terrorismo o l’infarto o il cancro, cambia finalmente poi molto? Ma trovare interessante il terrorismo sarà come trovare interessante il cancro, scrivere e leggere romanzi sul cancro, le testimonianze di chi l’ha avuto e ha tenuto diari […]?4

1 Alberto Arbasino, Un paese senza: Addio agli anni settanta italiani. Un congedo da un decennio poco amato,

Roma: Garzanti 1980, p. 120.

2 Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Roma: Minimum Fax 2008; Silvia Ballestra, I giorni della Rotanda,

Milano: Rizzoli 2009; Giorgio Fontana, Morte di un uomo felice, Palermo: Sellerio 2013; Marco Bellocchio, reg., Buongiorno, notte, Filmalbatros 2003; Daniele Luchetti, reg., Mio fratello è figlio unico, Cattleya Studios 2007; Marco Tullio Giordana, reg., Romanzo di una strage, Cattleya Studios 2012; Graziano Diana, Gli anni spezzati, Rai Fiction 2014.

3 Si vedano: Ruth Glynn, Women, Terrorism, and Trauma in Italian Culture, New York: Palgrave Macmillan

2013; Andrea Hajek, ‘Lo stragismo sul grande schermo: terrorismo, didattica e le strategie dell'oblio in Italia’, in: Storia e Futuro [online], no. 29 (2012).

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7 Riferendosi all’intensità e alla frequenza con cui sono state pubblicate e discusse le opere sugli anni di piombo, Cecilia Ghidotti (2015) si chiede se forse gli anni Settanta non siano ormai ‘iper-esposti.’5 La Ghidotti, riprendendo il giudizio di

Domenico Starnone, sostiene che si rischi di ridurre gli anni Settanta ad ‘un apparato storico’, cioè ad una serie di immagini stereotipe che continuano ad enfatizzare il carattere traumatico della memoria agli anni Settanta, ancorandola nel predicato ‘anni

di piombo.’6 Senza negare la possibilità di un trauma collettivo e senza denunciare le

singole espressioni culturali che trattano il terrorismo, la Ghidotti critica la tendenza editoriale che, a partire dagli ultimi anni Novanta, ha presentato ogni nuovo romanzo che tratta il decennio come il romanzo sugli anni Settanta. La studiosa enfatizza che ‘tenere l’attenzione principalmente incentrata sul dato della violenza politica, seppur rispondente a dati di realtà, rischia così di essere fuorviante perché finisce con l’ancorare l’immagine degli anni Settanta alla violenza […].’7

Nonostante il contenuto critico, l’articolo della Ghidotti lascia in sospeso la possibilità di un’immagine alternativa degli anni Settanta che riesca ad attenuare, minare o andare oltre la memoria collettiva raccontata in chiave della violenza politica. Questa tesi parte dalla premessa che ‘l’iper-esposizione’ del discorso letterario e cinematografico sul terrorismo ha escluso dall’ambito culturale le memorie di un ampio gruppo di italiani che ha vissuto gli anni Settanta, ma non ne ha memorie di violenza. Alla luce di questa proposta, Alan O’Leary (2010) ci segnala che il termine ‘anni di piombo’, oltre un riferimento metaforico ai proiettili sparati dai terroristi dell’estrema

sinistra, simbolizza la pesantezza del momento storico nel Ventesimo secolo italiano.8

Questa tesi aggiunge a tale osservazione che la circolazione del termine ‘anni di piombo’, e i temi e le immagini a esso collegati, non solo indica una preferenza per la

5 Cecilia Ghidotti, “Gli anni settanta non sono il fine.” Tra rimosso e iper-esposizione: scrittori italiani

contemporanei e racconto degli anni settanta’, in: Studi Culturali, no. 2 (2015), p. 6.

6 Ivi, p. 14. 7 Ivi, p. 2.

8 Alan O’Leary, ‘Italian cinema and the ‘anni di piombo’, in: Journal of European Studies, no. 3 (2010), p.

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8 narrazione del terrorismo di sinistra, ma esclude anche la memoria di chi non si ricorda il decennio come periodo di violenza politica, e di conseguenza pesa sul discorso con cui si può riferire agli anni Settanta.9

Questa ipotesi si sviluppa in concordanza con i processi della mediazione della memoria collettiva: ci ricorda Joanne Garde-Hansen (2011) che la memoria collettiva è una narrazione necessariamente passata e ripetuta attraverso i vari media, i cui linguaggi influenzano, modificano o opprimono le memorie individuali o alternative.10 Si può

rintracciare quest’osservazione nel discorso di Giorgio Agamben; il filosofo sostiene in Infanzia e storia (1978) che il linguaggio filosofico e scientifico abbiano ‘distrutto’ la possibilità di narrare memorie autentiche, perché ormai ‘l’esperienza ha il suo necessario correlato non nella conoscenza, ma nell'autorità, cioè nella parola e nel

racconto.’11 Mentre Ann Rigney (2006) mette in evidenza che ‘[m]emories are always

“scarce” in relation to everything that theoretically might have been remembered, but is now forgotten.’, la dominanza del racconto di storie e contro-storie degli ‘anni di piombo’ dimostra infatti la difficoltà di rivendicare una memoria ‘autentica’ e individuale che non coincide con il discorso sul terrorismo.12 Su ciò riflette anche

Antonio Scurati (2006) che, riprendendo l’argomento di Agamben, afferma che la letteratura e il cinema contemporaneo vengono caratterizzati non più dalle esperienze

9 Francesco Caviglia e Leonardo Cecchini dimostrano attraverso un’analisi storico-linguistico come il

discorso e il linguaggio hanno fin dall’inizio influenzato l’esperienza politica e la memoria storica della generazione cresciuta negli anni Sessanta e Settanta, in: Francesco Caviglia and Leonardo Cecchini, ‘Narrative Models of Political Violence: Vicarious Experience and ‘Violentization’ in 1970s Italy’, in: Pierpaolo Antonello e Alan O’Leary (a cura di), Imagining Terrorism: The Rhetoric and Representation of Political Violence in Italy 1969-2009, , New York: Legenda 2009, pp. 139-152. Si veda anche: Marita Rampazi e Anna Lisa Tota, Il linguaggio del passato: memoria collettiva, mass media e discorso pubblico, Roma: Carocci 2005.

10 Joanne Garde-Hansen, Media and Memory, Edinburgh: Edinburgh University Press, 2011, p. 42. Chiara

Bonfiglioli, Andrea Hajek e Monica Jansen (2014) definiscono la memoria mediata come: ‘the idea that the act of remembering an individual or collective past today is entirely mediated through documentaries, films, literature, digital storytelling and video diaries.’, in: Chiara Bonfiglioli, Andrea Hajek e Monica Jansen, ’Introduction: Television and the Fictional Rewriting of History in Italy’s Second Republic’, in: The Italianist, no. 1 (2014), p. 145.

11 Giorgio Agamben, Infanzia e storia: distruzione dell'esperienza e origine della storia, Torino: Einaudi 1978

e 2001, p. 6.

12 Ann Rigney, ‘Plenitude, scarcity and the circulation of cultural memory’, in: Journal of European Studies,

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9 vissute, ma invece dall’inesperienza, che risulta come una ‘condizione trascendentale dell’esperienza attuale.’13

Questa tesi riprende il concetto dell’inesperienza, come formulato da Agamben e Scurati, per poter ripensare gli anni Settanta oltre la rappresentazione di Storia e contro-storia in chiave degli ‘anni di piombo’, partendo dal punto di vista del bambino nel cinema. In quanto non è esperto, rispetto all’adulto, e non ha esperienze vissute, il bambino è uno ‘strumento’ con cui si potrebbe immaginare gli anni Settanta in termini di un’assenza di esperienze. A ciò si lega il concetto di infanzia, introdotto da Agamben per intendere un’esperienza ‘muta’, che potrebbe minare il linguaggio collettivo.14

Anche se si tratta, paradossalmente, di infanzia ricostruita dall’adulto, il concetto di infanzia si rapporta sia in modo letterale che in modo metaforico al bambino protagonista: in quanto infante – o ‘senza lingua’ -, il bambino non si è ancora appropriato del linguaggio comune e non ha ancora potuto trasformare la sua esperienza in una narrazione collettiva, né tale narrazione è ancora entrata nel mondo del bambino.15 A tale proposito, Eleonora Conti (2015) suggerisce che il

bambino-protagonista nella letteratura e nel cinema sia potenzialmente in grado di offrire ‘un’alternativa meno tragica della realtà in cui è costretto a vivere e che non sa interpretare razionalmente.’16 Utilizzando sia in modo letterale che in modo metaforico

il concetto di infanzia, questa tesi chiede come il bambino-protagonista nel cinema dà accesso al racconto della vita ordinaria e esplora di conseguenza come il bambino si ribella all’assenza di esperienze distinte della ‘grande Storia.’

13 Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione, Milano:

Bompiani 2006, pp. 33-45;

14 Giorgio Agamben, Infanzia e storia, cit., p. 35.

15 Anche se Agamben non esplicita fino a quale età un bambino può essere considerato infante, e le definizioni

nei dizionari non concordano, in questa tesi si segue la definizione odierna esplicata da Giovanna de Luca, che suggerisce che l’infanzia riguarda ‘la fascia d’età tra i quattro e i dodici anni’, quindi fino alla prima adolescenza. Giovanna de Luca, Il punto di vista dell’infanzia nel cinema italiano e francese, Napoli: Liguori 2009, p. 2. Si veda: “Infanzia”, in: Mario Cannella e Beata Lazzarini (a cura di), Lo Zingarelli: Vocabolario della lingua italiana, , no. 12., Pioltello 2014.

16 Eleonora Conti, ‘L'infanzia fra utopie, desideri impossibili e distopie nella letteratura italiana degli anni

Duemila’, in: Natalie Dupré, Monica Jansen, Srecko Jurisic e Inge Lanslots (a cura di), Narrazioni della crisi. Proposte italiane per il nuovo millennio, , Firenze: Franco Cesati Editore 2016, pp. 25.

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10 Danielle Hipkins (2014) nota che il punto di vista del bambino nel cinema italiano dopo il neorealismo è stato soltanto marginalmente studiato, mentre i childhood studies hanno sottovalutato il genere della commedia e l’influenza degli anni Settanta.17

Anche se il punto di vista del bambino non è assente nella narrativa sugli ‘anni di piombo’, questa tesi cerca di colmare le lacune suggerendo che il topos del bambino offre la possibilità di creare una memoria alternativa degli anni Settanta, che compromette la dominanza della violenza politica.18

Il punto di vista del bambino sugli anni Settanta è stato proposto da tre film dell’ultimo decennio: La prima cosa bella (2010) di Paolo Virzì racconta la storia di Anna, la mamma di due bambini, che lascia il marito per perseguire il suo sogno di diventare attrice.19 Portando con sé i suoi figli, Anna vive gli anni Settanta fra precarietà

economica, continui traslochi ed amanti occasionali. Tanti anni dopo, negli ultimi giorni della vita di sua madre, il figlio Bruno, ormai adulto, rilegge con rancore e nostalgia la sua infanzia e la relazione conflittuale con sua madre. La kryptonite nella borsa (2011) di Ivan Cotroneo, tratto dal romanzo omonimo dello scrittore-regista, è situato nella Napoli del 1973 e si concentra su Peppino, ragazzo di nove anni, che diventa la vittima principale dell’adulterio del padre e della depressione della madre.20 In modo da

proteggersi dai problemi della sua famiglia, dai nonni troppo severi e tradizionali, dai dispetti dei compagni di classe e dalla vita hippy dei suoi zii, Peppino vive gli anni Settanta con l’aiuto di suo cugino morto, che torna nell’immaginazione del bambino come il Superman napoletano. Infine, Anni felici (2013) di Daniele Luchetti mette in scena l’estate del 1974 attraverso la voce narrante di Dario, il figlio di un'aspirante artista d'avanguardia e una femminista indecisa nella fase di sperimentazione sessuale.21

17 Danielle Hipkins,‘The Child in Italian Cinema: an Introduction’, in: Danielle Hipkins e Roger Pitt (a cura

di), New Visions of the Child in Italian Cinema, Oxford: Peter Lang 2014, p.11, p. 24

18 Si ricorda per esempio Giorgio Vasta, Il tempo materiale, cit.

19 Paolo Virzì, reg., La prima cosa bella, Medusa Film 2010. Siccome il film copre sia l’infanzia che

l’adolescenza del protagonista, questa tesi si focalizza, ma non si limita, alla prima parte in cui il protagonista richiama le sue memorie infantili.

20 Ivan Cotroneo, reg., La kryptonite nella borsa, Indigo Film 2011.

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11 La separazione dei genitori implica per Dario una maggiore indipendenza e la responsabilità di crearsi una sua identità in un mondo che sta cambiano e che non riesce a comprendere del tutto. Attraverso l’analisi di questi film alla luce della teoria dell’inesperienza e dell’infanzia, si cerca di rispondere alla domanda: in che modo contribuisce il punto di vista del bambino in La prima cosa bella (Virzì, 2010), La Kryptonite nella borsa (Cotroneo, 2011) e Anni felici (Luchetti, 2012) alla memoria collettiva degli anni Settanta e alla creazione di una narrazione alternativa del decennio? Si cerca di capire come il punto di vista del bambino in questi film sia una posizione critica, non perché reinterpreta i fatti di cronaca da una prospettiva nuova, come si fa creando una ‘contra-storia’, ma perché dà voce a chi non ha vissuto gli avvenimenti che hanno fatto la ‘grande’ Storia degli anni Settanta. In quanto tale, si ipotizza nel primo capitolo che il punto di vista dell’infanzia nei tre film rappresenti dei frammenti di ‘non-storia’, ovvero una narrazione che mette in scena un momento storico determinato da cui mancano i riferimenti ai topoi comuni della memoria collettiva. Attraverso un’analisi teorica del rapporto fra la mediazione della memoria collettiva, la pesantezza del discorso storico e il concetto di infanzia, si cerca di delineare le condizioni per poter rivendicare una memoria degli anni Settanta oltre i temi e i linguaggi relazionati alla violenza politica del decennio. Partendo dalle premesse esposte nel primo capitolo e dall’ambigua presenza del bambino nella memoria, si propone nel secondo capitolo un’analisi della focalizzazione del bambino, mostrando particolare attenzione per il modo in cui i tre film cercano di mettere in scena l’esclusione del bambino dal mondo degli adulti e la possibilità di rivendicare un’esperienza metaforicamente ‘muta.’

Una volta stabiliti allora i meccanismi e le conseguenze del punto di vista del bambino nei tre film, nel terzo capitolo si procede all’analisi del modo in cui la figura del bambino offre uno sguardo nuovo o sovversivo sui temi degli anni Settanta. Nel primo paragrafo si analizza l’interpretazione del bambino dei cambiamenti dei rapporti famigliari, focalizzando in particolare sull’(in)dipendenza dai genitori. Nel secondo paragrafo si osserva in seguito il rapporto particolare del bambino con gli spazi,

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12 ipotizzando che attraverso il punto di vista innocente e colorato del bambino sia ancora possibile immaginare i (non-)luoghi degli anni Settanta in modo utopico, invece di traumatico.

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13 1. Una non-storia degli anni Settanta: la memoria fra mediazione, inesperienza e

infanzia

Nell’introduzione di Patria: 1976-1977, Enrico Deaglio ci ricorda che ‘[d]al 1967 al 1977 in Italia ci sono stati almeno otto “grandi” tentativi di colpi di stato, almeno venti “grandi” attentati alle linee ferroviarie e a luoghi pubblici con l’obiettivo di creare paura e di instaurare una nuova forma di governo. Non hanno mai vinto, ma non hanno mai

perso veramente.’22 Remo Ceserani e David Ward notano che, anche se Patria cerca di

offrire un approccio panoramico e inclusivo del decennio, l’enfasi sulle ‘grandi’ vicende di violenza politica, caratterizza il modo in cui gli anni Settanta vengono ampiamente ricordati non come un’epoca pluridimensionale, ma piuttosto come una catena di istanti di violenza. 23 Si è osservato che tale atteggiamento memoriale rischia di diventare

acritico perché dà spazio agli attori della violenza di diventare ‘i protagonisti’ della Storia e ciò esclude la voce di chi non ha esperienze di violenza politica.24

Sottolineando l’importanza della costruzione mediatica e linguistica della memoria collettiva, si ipotizza in questo capitolo che l’enfasi sugli istanti di violenza politica abbia creato un discorso di memorie e contro-memorie degli anni Settanta che ha impedito la possibilità di narrare delle esperienze alternative, e in particolare quelle dell’infanzia. In primo luogo, si cerca di mettere in evidenza che la mediazione, che caratterizza la narrazione dell’epoca, confonde in modo profondo le memorie private e collettive, e contribuisce perciò ad una condizione di ‘inesperienza’ rispetto agli anni

22 Enrico Deaglio, Patria: 1967-1977, Milano: Feltrinelli 2017, p. 18; Deaglio copre l’altra metà degli ‘anni

di piombo’, a partire dal rapimento di Aldo Moro, in Patria: 1978-2010: Enrico Deaglio, Patria: 1978-2010, Milano: Feltrinelli 2010.

23 Remo Ceserani, ‘Il caso di un montaggio di cronache, ricordi, documenti e interpretazioni della realtà che

sembrano costruire un romanzo italiano: Patria di Enrico Deaglio’, in: Hanna Serkowska (a cura di), Finzione, Cronaca, Realtà: scambi, intrecci e prospettive nella narrativa italiana contemporanea, Massa: Transeuropa 2011, pp. 81-94; David Ward, Contemporary Italian Narrative and 1970s Terrorism : Stranger Than Fact, London: Palgrave Macmillan 2017, p. 118.

24 Enrico Deaglio, Patria: 1967-1977, cit., p. 18; Al contrario, Giovanni De Luna sostiene che l’attenzione e

l’empatia per le vittime dei ‘grandi’ eventi storici rischi di creare un ‘paradigma vittimario’ che impedisce ugualmente uno sguardo critico sulla Storia, in: Giovanni de Luna, La repubblica del dolore: le memorie di un’Italia divisa, Milano: Feltrinelli 2011.

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14 Settanta. Legando in seguito il fatto proprio alla condizione del bambino, si esplora come un ritorno all’infanzia si colloca nella memoria collettiva. Infine, si vedrà nel terzo paragrafo come il punto di vista dell’infanzia potrebbe rivendicare una narrazione di ‘non-storia’ che possa includere proprio quest’inesperienza e che cerca di smantellare il sistema binario del discorso memoriale degli ‘anni di piombo.’

1.1 L’inesperienza fra narrazione pubblica e memoria privata

Mentre la complessità della memoria degli ‘anni di piombo’ suscita ancora giustamente grande interesse nell’ambito pubblico e accademico,25 alcuni studiosi, fra cui Anna

Cento Bull e Adalgisa Giorgio, hanno osservato che la rappresentazione e la re-interpretazione del terrorismo organizzato e della violenza politica tende a dividere il dibattito pubblico sul periodo fra memorie e contro-memorie degli instanti straordinari, mentre opprime delle voci e delle memorie private e alternative.26 L’intreccio fra

memoria privata e memoria pubblica è un problema centrale nell’ambito degli studi della memoria. Infatti, Aleida Asmann richiama l’attenzione al carattere necessariamente narrativo delle memorie, sostenendo che ‘[u]nless they [le memorie individuali, ed.] are integrated into a narrative, which invests them with shape, significance, and meaning, they are fragmented, presenting only isolated scenes without temporal or spatial continuity.’27 Anche se tale osservazione sottolinea il rapporto

narrativo fra la memoria collettiva e quella privata, essa sembra presupporre l’esistenza di memorie individuali a priori alla loro integrazione nella narrazione collettiva, mentre si potrebbe osservare che la memoria individuale sia necessariamente condizionata dal racconto collettivo. Perciò si cerca di evidenziare in questo paragrafo che la mediazione

25 Si veda per esempio: Pierpaolo Antonello e Alan O’Leary, ‘Introduction’, in: Pierpaolo Antonello e Alan

O’Leary (a cura di), Imagining Terrorism: The Rhetoric and Representation of Political Violence in Italy 1969-2009, London: Legenda 2009, pp. 1-15.

26 Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio, ‘The 1970s through the Looking Glass’, in: Anna Cento Bull e

Adalgisa Giorgio (a cura di), Speaking Out and Silencing: Culture, Society and Politic in Italy in the 1970s, London: Legenda 2006, p. 1.

27 Aleida Assmann, ‘Re-framing memory. Between individual and collective forms of constructing the past’,

in: Karin Tilmans, Frank van Vree and Jay Winter (a cura di.), Performing the Past: Memory, History, and Identity in Modern Europe, Amsterdam: Amsterdam University Press 2010, p. 4.

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15 attraverso vari canali di trasmissione, fra cui il linguaggio stesso, caratterizza la memoria degli anni Settanta e che ciò risulta in una condizione di inesperienza di fronte al periodo.

Riprendendo il giudizio di Gianluigi Simonetti, Cecilia Ghidotti identifica tre fasi nello sviluppo della memoria collettiva degli anni Settanta, come proposta da rappresentazioni letterarie e cinematografiche. In un primo momento che coincide largamente con il periodo del terrorismo, si è cercato di reagire ai fatti di cronaca esprimendosi in modo più o meno diretto contro la militanza politica, come dimostrano, fra tanti altri esempi, L’affaire Moro (1978) di Leonardo Sciascia e In questo stato

(1978) di Alberto Arbasino.28 A ciò aggiunge Alan O’Leary che nell’ambito

cinematografico, il poliziesco e la commedia all’italiana hanno particolarmente contribuito alla risposta ‘a caldo’ al terrorismo italiano, fornendo interpretazioni di

carattere cospiratore o psicoanalitico.29 La seconda fase si caratterizza per

l’elaborazione di testimonianze da parte di chi ha trascorso gli anni Settanta come militante politico, di cui Il prigioniero (1998) di Anna Laura Braghetti e Paola Tavella è l’esempio più noto.30 A partire dal nuovo millennio si è passato infine alla

rielaborazione dei temi e i dati degli anni Settanta da parte di scrittori che non sono stati testimoni diretti della violenza politica. Questa terza fase, che entra nella post-memoria, si riflette nella concezione che la letteratura non nasce necessariamente dalle esperienze vissute, ma che si occupa sempre più spesso di una (re-)interpretazione di esperienze indirette.31 In tale atteggiamento, che Chiara Bonfiglioli, Andrea Hajek e Monica Jansen

ritengono esemplare per la reinterpretazione della Storia nazionale dagli anni Novanta

28 Cecilia Ghidotti, “Gli anni settanta non sono il fine.”, cit., p. 2; Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, Palermo:

Sellerio 1978; Alberto Arbasino, In questo stato, Milano: Garzanti 1978.Questa tendenza è stata analizzata da Marco Belpoliti in: Marco Belpoliti, Settanta, Torino: Einaudi 2001.

29 Alan O’Leary, ‘Italian cinema and the ‘anni di piombo’, cit., p. 245. O’Leary discute per esempio Cadaveri

Eccellenti di Franscesco Rosi (1976) e Mordi e fuggi di Dino Risi (1973).

30 Cecilia Ghidotti, “Gli anni settanta non sono il fine.”, cit., p. 2. Anna Laura Braghetti e Paola Tavella, Il

prigioniero, Milano: Feltrinelli 1998.

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16 in poi, si collocano per esempio I giorni della Rotonda (2009) di Silvia Ballestra e Il tempo materiale (2008) di Giorgio Vasta.32

L’ipotesi proposta dalla Ghidotti dimostra che la memoria collettiva come si è sviluppata finora è necessariamente stata influenzata, oppure pre-mediata, dalle varie narrazioni precedenti e che ciò raggiunge un culmine nell’ultima fase in cui la distinzione fra media e memoria è stata sospesa. L’idea che le esperienze degli anni Settanta vengono ormai in primo luogo caratterizzate da testi e immagini pre-mediati, proposti e ripetuti attraverso i mass media, risulta esemplare per l’osservazione di Chiara Bonfiglioli, Andrea Hajek e Monica Jansen che ‘[t]he binary opposition between media as ‘mass’, ‘popular’, and ‘artificial’, on the one hand, and memory as lived, authentic, and experienced, on the other, should be reconsidered as being blurred.’33 A

tale proposito, Claudia Bernardi osserva che negli anni Novanta alcuni giovani scrittori, fra cui Silvia Ballestra, Rossana Campo e Aldo Nove, hanno tentato di privatizzare la memoria degli anni Settanta intrecciando la loro infanzia (autobiografica) nella memoria collettiva. Il romanzo di Giorgio Vasta, però, risulta particolarmente

esemplare per il venir meno dell’opposizione binaria fra media e memoria.34 Il tempo

materiale è incentrato sulla tensione fra la narrazione d’infanzia del protagonista e il carattere indiretto e mediatico della memoria agli anni Settanta e riflette sul modo in cui

i mass media hanno fin dall’inizio influenzato la narrazione degli ‘anni di piombo.’35

Non solo lo scrittore, in quanto non è stato testimone diretto della violenza politica, ha dovuto documentarsi sui dati di cronaca ed è stato influenzato dalle narrazioni

32 Chiara Bonfiglioli, Andrea Hajek e Monica Jansen, ‘Introduction’, cit., p. 142.

33 Ivi, pp. 145-146. Si veda anche: Joanne Garde-Hansen, Media and Memory, cit., pp. 38-39.

34 Claudia Bernardi discute Il ’68 di chi non c’era (ancora), il volume di racconti edito da Raul Montanari,

sostenendo che i racconti presentano ‘a direct reflection on the part of their authors on the effects of their childhood years on their lives and writings.’ In: Claudia Bernardi, ‘Collective Memory and Childhood Narratives: Rewriting the 1970s in the 1990s’, in: Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio (a cura di), Speaking Out and Silencing: Culture, Society and Politic in Italy in the 1970s, London: Legenda 2006, p. 187; Si veda anche: Raul Montanari (a cura di), Il ’68 di chi non c’era (ancora), Milano: Rizzoli 1998.

35 Per un’analisi della mediazione dell’esperienza nel romanzo di Vasta, si veda per esempio: Matteo Martelli,

‘Memorie sensibili di fronte alla storia: i bambini ideologici di Giorgio Vasta’, in: Federica Lorenzi and Lia Parrone (eds.), Le nuove forme dell’impegno letterario in Italia, Ravenna: Giorgio Pozzi Editore 2015, pp. 102-118; oppure: David Ward, Contemporary Italian Narrative and 1970s Terrorism, cit., pp. 60-65.

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17 precedenti, anche l’atteggiamento dei tre protagonisti infantili del romanzo viene fortemente influenzato dall’immaginario che emerge dai mass media e risulta in un atto di violenza eseguito dai bambini. Perciò, Raffaele Donnarumma conclude che: ‘[p]er Nimbo, Volo e Raggio il terrorismo è prima di tutto qualcosa di cui si parla: un fatto linguistico, un’invenzione verbale […].’36 In quanto l’esperienza individuale dei tre

bambini-protagonisti viene caratterizzata da tale confusione fra lingua, media e memoria, il romanzo risulta esemplare per una condizione di ‘inesperienza’ di fronte alla Storia degli anni Settanta.

In La letteratura dell’inesperienza, Antonio Scurati si esprime in modo critico sul dissolversi dei confini fra media e memoria e sostiene che l’onnipresenza di mezzi mediatici come la televisione sia una causa della sparizione di una letteratura che si fonde sulla testimonianza di esperienze vissute, come quella proposta da Italo Calvino in Il sentiero dei nidi di ragno.37 Mentre Calvino scrive nella famosa prefazione al libro

che ‘[l]e letture e l’esperienza di vita non sono due universi ma uno’, Scurati sostiene che tale unità sia corrotta a causa della mancanza di testimonianze del mondo vissuto.38

Perciò, Scurati introduce il concetto di inesperienza per intendere che ormai le esperienze, e per estensione la memoria, si confondono con la conoscenza implicita del mondo, cioè con l’immagine diffusa dai mass media: ‘[i]l mondo oggi non “si vive”, e la sua conoscenza non riposa più sull’esperienza. Al contrario, l’inesperienza è la condizione trascendentale dell’esperienza attuale.’39 L’inesperienza non è dunque il

contrario dell’esperienza in quanto un’assenza assoluta di esperienze, ma comprende invece la condizione che risulta dalla mediazione della memoria e dalla conseguente appropriazione di esperienze non vissute. Di ciò è esemplare l’osservazione di Claudia

36 Raffaele Donnarumma, ‘Giorgio Vasta – Il tempo materiale’, January/June 2009, in: Allegoria online [sito

web],

http://www.allegoriaonline.it/index.php/raccolte-tremila-battute/allegoria-60/300-giorgio-vasta-qil-tempo-materialeq, consultato 30 giugno 2018.

37 Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza, cit., p. 30.

38 Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino: Einaudi 1947 e 1964, p. 9; Antonio Scurati, La

letteratura dell’inesperienza, cit., pp. 19-20. Per un’analisi critica del libro di Scurati e il suo rapporto con il romanzo di Calvino, si veda: Monica Jansen, ‘Laboratory NIE: Mutations in Progress’, in: Journal of Romance Studies, no. 1 (2010), pp. 97-109.

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18 Bernardi che i bambini, che per la maggior parte non sono stati testimoni diretti della violenza politica, vengono inevitabilmente confrontati con ‘[t]he contradiction of having to negotiate their narratives of the 1970s between private childhood memory and adult public perception of the time.’40

Scurati deriva il concetto di inesperienza da Giorgio Agamben, la cui filosofia si basa sull’ipotesi di una distruzione della possibilità di narrare e trasmettere delle

esperienze ‘autentiche’, ‘dirette’ o ‘vissute’ nell’epoca moderna.41 Agamben sostiene

che la fondazione della metafisica occidentale ci abbia privato della possibilità di trasmettere l’esperienza nella forma di testimonianza, perché l’approccio metafisico ha proposto una preferenza per la conoscenza trascendentale, cioè per la regola astratta e generalizzata, e di conseguenza ha svalutato la conoscenza del mondo fondata sulle esperienze individualmente vissute.42 Ciò vuol dire che, anche se la persona viene

ancora confrontata con degli eventi significativi, l’autorità della mediazione linguistica impedisce la possibilità di tradurre questi eventi in esperienza ‘autentica.’43 Agamben

sostiene che tale autorità favorisca il racconto dello straordinario, di cui si possa essere soltanto il testimone passivo.44 Seguendo questo ragionamento, quindi, si potrebbe

constatare che la narrazione collettiva pre-esiste alla memoria individuale, per cui essa ne è necessariamente influenzata. A causa di ciò, le memorie individuali o alternative non esistono a priori alla memoria collettiva, ma vengono deformate nella narrazione pre-esistente, oppure non possono esistere come entità memoriali.

40 Claudia Bernardi, ‘Collective Memory and Childhood Narratives’, cit., p. 187.

41 Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza, cit., p. 42; Giorgio Agamben, Infanzia e storia, cit., p. 6. 42 Ibidem.

43 Riferendosi a Walter Benjamin, Agamben gioca con la differenza intraducibile fra Erfahrung, cioè

l’accumulazione di conoscenza di vita, e Erlebnis, cioè l’assistenza a degli eventi significativi. Nel pensiero agambeniano, è soprattutto la possibilità di Erfahrung che è stata distrutta dalla metafisica occidentale: ‘È questa incapacità di tradursi in esperienza che rende oggi insopportabile – come mai in passato – l’esistenza quotidiana, e non una pretesa cattiva qualità o insignificanza della vita contemporanea rispetto a quella del passato (anzi, forse mai come oggi l’esistenza quotidiana e stata tanto ricca di eventi significativi.’ In: Ivi, pp. 5-6. Si veda anche: Leland de la Durantaye, Giorgio Agamben: A Critical Introduction, Stanford: Stanford University Press 2009, p. 85.

44 Giorgio Agamben, Infanzia e storia, cit., p. 7; Giovanna de Luca, Il punto di vista dell’infanzia nel cinema

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19 A ciò si lega l’idea della ‘pesantezza’ delle ‘parole che usiamo’ per riferirci agli anni Settanta, che risuona nell’analisi del termine ‘anni di piombo’ proposta da Alan O’Leary: il termine riferisce non soltanto al modo in cui il trauma del terrorismo pesa ancora sul presente, le sue associazioni metaforiche dimostrano anche la centralità del linguaggio nella creazione di una memoria collettiva.45 Dall’articolo di O’Leary

emerge il discorso binario che caratterizza la narrazione collettiva degli anni Settanta: destra-sinistra, comunista-fascista, operaio-borghese, padre-figlio, maschio-femmina, vittima-carnefice, memoria-contro-memoria. La tensione dialettica caratterizza anche il discorso memoriale in quanto gli anni Settanta vengono interpretati e spiegati con termini che racchiudono una tensione fra due forze opposte: ‘the juxtaposition of conflicting discourses’, ‘the generational conflict’, ‘the chiaroscuro national epic’, e ciò

emerge in più dal concetto di ‘divided memory’ proposto da John Foot.46 La traccia

binaria e il conseguente carattere dialettico della memoria degli anni Settanta è esemplare per l’idea ‘dell’immanentizzazione dell’antagonismo’ di Roberto Esposito, secondo la quale il conflitto fra alternative non-mediabili è inerente alla cultura italiana

e crea ‘una realtà che non è possibile trascendere in una dimensione differente.’47 In

quanto tale, la negoziazione fra memorie e contro-memorie e fra esperienze individuali e narrazioni collettive, rimane all’interno dello stesso discorso collettivo; o come esplicitano O’Leary e Pierpaolo Antonello: ‘[w]hen speaking of the representation of terrorism we have in mind the production of texts that are located within the interpretative socio-historical discourse of those years.’48 L’autorità di tale discorso

binario e la sua preferenza per il racconto dello straordinario, esclude di conseguenza la possibilità di rivendicare una posizione oltre il contesto interpretativo per cui diventa difficile raccontare gli anni Settanta oltre i ‘grandi’ eventi della Storia.

45 Alan O’Leary, ‘Italian cinema and the ‘anni di piombo’, cit., p. 244. L’idea diffusa che il termine esprime

una preferenza per una narrazione sul terrorismo di sinistra è stata spiegata nell’introduzione.

46 Ivi, p. 249, p. 254, p. 255; John Foot, Italy’s divided memory, New York: Palgrave Macmillan 2009.

47 Roberto Esposito, Pensiero vivente: origine e attualità della filosofia italiana, Torino: Einaudi 2010, p. 26. 48 Pierpaolo Antonello e Alan O’Leary, ‘Introduction’, cit., p. 3.

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20 Vista la difficoltà di fornire memorie alternative, si potrebbe argomentare che l’inesperienza a causa della profonda mediazione della memoria degli anni Settanta abbia una doppia conseguenza sulla memoria d’infanzia: l’inesperienza risulta non solo come condizione trascendentale dell’appropriazione di narrazioni e memorie non direttamente vissute, come propone Antonio Scurati, ma essa definisce anche la memoria dell’epoca che non coincide con la narrazione collettiva. In quanto tale, si suggerisce che l’inesperienza caratterizza la condizione del bambino in primo luogo perché è privo di esperienza di fronte ai ‘grandi’ eventi di violenza politica, ma anche perché ciò risulta necessariamente nella sua esclusione dalla memoria collettiva. Si vedrà che i tre film cercano di negoziare questa doppia inesperienza del bambino-protagonista, dimostrando in linea con Lesley Caldwell che la rappresentazione cinematografica del bambino, con il suo ‘[l]ack of experience and an untouchedness’, invita un’interpretazione in cui i bambini-protagonisti sono ‘[c]ompletely at odds with the narratives in which they are placed […].’49

Il fatto che i bambini-protagonisti si rapportano al contesto storico degli anni Settanta in modo anomalo emerge dalla messa in scena del bambino nei tre film. La prima cosa bella di Paolo Virzì dimostra come la memoria di Bruno degli anni Settanta è stata influenzata dal racconto collettivo, ma sceglie esplicitamente di non dare importanza alla violenza politica che caratterizza la memoria collettiva dell’epoca. Il film propone un punto di vista lontano sugli anni Settanta, in quanto il personaggio di Bruno rivive la sua infanzia attraverso i flashback.50 Con questa tecnica narrativa, il film

non solo problematizza la possibilità di raccontare le esperienze ‘a caldo’ e mette in dubbio l’autenticità della memoria, ma enfatizza in particolare che le memorie d’infanzia di Bruno sono condizionate dal suo sguardo da adulto e quindi non possono esistere a priori ad una narrazione collettiva. Perciò, da narratore della cornice narrativa,

49 Lesley Caldwell, ‘Ragazzo Fortunato? Children in Italian Cinema’, in: Danielle Hipkins e Roger Pitt (a

cura di), New Visions of the Child in Italian Cinema, Oxford: Peter Lang 2014, p. 62.

50 La distinzione fra una narrazione dell’infanzia da lontano o da vicino è stata proposta da Giovanna de Luca

e verrà esplicata nel secondo capitolo, in: Giovanna de Luca, Il punto di vista dell’infanzia nel cinema italiano e francese’, cit., p. 2.

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21 Bruno-adulto ci mostra la tensione fra la narrazione dei ‘grandi’ eventi della Storia e la sua propria inesperienza da bambino (figura 1): mentre il narratore racconta una scena che si svolge di fronte all’officina del Partito Comunista Italiano, che propaga una militanza politica attraverso i manifesti attaccati alla parete, il punto di vista di Bruno-bambino ignora tale indicazione politica, ma richiama alla memoria la cultura popolare dell’epoca, mostrando sua madre che canta le prime frasi della canzone ‘La prima cosa bella’, suonata da Nicola di Bari al festival di Sanremo nel 1970.51 Il bambino, quindi,

si allontana sia in modo letterale - in quanto si gira dall’altro lato della strada - che in modo metaforico dal contesto storico-politico, spingendo ai margini i riferimenti storici e opponendoli con una sua memoria alternativa degli anni Settanta.

Figura 1 – La prima cosa bella (00.17.28)

Anni felici di Daniele Luchetti segue un approccio simile, in cui i riferimenti alle ‘grandi’ vicende dell’epoca proposti da un narratore esterno non vengono percepiti dal bambino-protagonista. Attraverso un manifesto alla parete che cita ‘Le donne della famiglia Cervi votano no’, il film situa la storia immediatamente nel contesto

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22 politico (figura 2): il manifesto non è soltanto un riferimento al referendum sul divorzio, indetto nel 1974, ma anche alla famosa famiglia Cervi che svolge un ruolo importante nell’immaginario della Resistenza negli anni Settanta.52 Tuttavia, lo sguardo del

bambino Dario si fissa soltanto sul disegno del ‘cane pirata’ della pubblicità dell’epoca e ignora il manifesto politico, minando la mediazione dell’immaginario collettivo. In questo modo, il film esplicita l’inesperienza del suo protagonista, dimostrando che, anche se la storia della vita ordinaria è intrecciata nella Storia dei ‘grandi’ fatti, si riesce attraverso l’infanzia a visualizzare ciò che non entra nel discorso storico-memoriale.

Figura 2 – Anni felici (00.01.25)

La Kryptonite nella borsa, invece, presenta un punto di vista sull’infanzia da vicino, che coincide direttamente con lo sguardo del bambino-protagonista, per cui riesce a evitare la voce dell’adulto che interpreta la memoria con il senno di poi. Il narratore esterno introduce la storia di Peppino esplicitamente evitando di ancorarla nel

52 La famiglia Cervi, i cui uomini furono uccisi dai fascisti durante la Resistenza, svolge un ruolo importante

nell’immaginario dei militanti di sinistra degli anni Settanta. Questo riferimento alla ‘founding narrative’ di una ‘Resistenza tradita’ verrà approfondito nel terzo capitolo. Si veda anche: Philip Cooke, ‘The Neo-Resistance of the 1970s’, in: Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio (a cura di), Speaking out and silencing Speaking Out and Silencing: Culture, Society and Politic in Italy in the 1970s, London: Legenda 2006.

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23 contesto storico-politico, riferendosi invece al tema universale dell’amore: ‘Questa è la storia di un bambino con gli occhiali, di una famiglia e di un supereroe. Ma non è una storia sull’infanzia, questa è una storia sull’amore.’53 Alla luce dell’osservazione di

Aine O’Healy che ‘if childhood is time- and context-bound, the experience of young people and the meanings attached to childhood […] must surely possess distinctive contours that reflect the city’s complicated social history and cultural terrain’,54

l’omissione paradossale del narratore – il film tratta inevitabilmente dell’infanzia del suo protagonista - rappresenta il tentativo di non dotare la storia di Peppino del carico storico-politico che caratterizza la memoria collettiva ed enfatizza di conseguenza l’inesperienza del bambino di fronte a tale contesto.

Alla luce dell’osservazione di Claudia Bernardi che l’infanzia negli anni Settanta rappresenta per i bambini ‘a period of their lives when they could not choose whether or not to act in the public and political sphere, but which was nonetheless marked by the historical events’,55 si è visto che i film cercano di respingere la

narrazione degli eventi storici in modo da de-marginalizzare la vita ordinaria del bambino. In quanto non si collocano nella tradizione di re-interpretare i fatti di cronaca e nascondono i riferimenti al contesto storico dallo sguardo del bambino-protagonista, i film situano l’inesperienza del bambino nel suo non-coincidere con i ‘grandi’ eventi della Storia. In quanto tale, i film non propongono una forza interpretativa contro la memoria collettiva, e quindi non creano una ‘contro-memoria’, ma utilizzano la figura del bambino per poter resistere al discorso comune. Paradossalmente, quindi, con un ritorno all’infanzia i tre film esplorano, come si vedrà nel prossimo paragrafo, la possibilità di inquadrare e ricordare gli anni Settanta oltre le memorie e contro-memorie

53 Ivan Cotroneo, La Kryptonite nella borsa, [00.04.53].

54 Aine O’Healy, ‘A Neapolitan Childhood: Seduction and Betrayal in Pianse Nunzio 14 anni a Maggio’, in:

Anne Hardcastle, Roberta Morosini e Kendall Tarte (a cura di), Coming of Age on Film: Stories of Transformation in World Cinema, Newcastle: Cambridge Scholars Publishing 2009, p. 14. L’analisi di O’Healy riguarda il rapporto fra l’infanzia del protagonista e la città di Napoli nel film Pianese Nunzio 14 anni a Maggio (1996) di Antonio Capuana. Tale rapporto in La Kryptonite nella borsa verrà discuso nel terzo capitolo.

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24 collettive. I bambini nei tre film rappresentano perciò, nelle parole di Cento Bull e

Giorgio, ‘[a] nostalgia for something they could experience for themselves.’56

1.2 Il ritorno all’infanzia e l’io memoriale

Di fronte al discorso storico-memoriale che impedisce la testimonianza dell’esperienza vissuta, Giorgio Agamben sostiene paradossalmente che ‘esperire significa

necessariamente […] riaccedere all’infanzia come patria trascendentale della storia.’57

In virtù della sua doppia inesperienza, il bambino è costretto a costruirsi un linguaggio attraverso il quale poter esprimere una sua prospettiva storica. Perciò, il ritorno all’infanzia, come esemplificato dai tre film, potrebbe essere considerato come uno strumento per situare la storia del bambino al di fuori del discorso sui ‘grandi’ eventi storici. In questo paragrafo si cerca perciò di evidenziare come il bambino-protagonista, come simbolo di un ritorno all’infanzia, rappresenta il tentativo di creare una narrazione che si incentra sull’esperienza della vita ordinaria, e in quanto tale cerca di minare il carattere conflittuale del discorso memoriale agli anni Settanta.

Mentre Scurati situa l’inesperienza innanzitutto nel fatto che la conoscenza del mondo viene ormai mediata dai vari canali di trasmissione, e particolarmente dai mass media, Giorgio Agamben enfatizza in Infanzia e Storia che la questione dell’(in)esperienza abbia necessariamente origine nella struttura del linguaggio umano. Interessato nel modo in cui l’essere umano, in quanto non dispone del linguaggio fin dalla nascita, acquista il linguaggio durante la vita e quindi ‘entra’ in un linguaggio pre-mediato quando inizia a parlare, lo studioso propone il concetto ambiguo di ‘infanzia’ per intendere il momento in cui le esperienze siano ancora potenzialmente possibili. L’idea di infanzia, che Agamben relaziona al bambino sia in modo letterale che in modo simbolico, si basa sull’etimologia della parola; derivato dal latino in-fans, infanzia significa ‘muto’, ‘che non sa parlare’, e il termine viene comunemente definito come ‘il

56 Anna Cento Bull e Adalgisa Giorgio, ‘The 1970s through the Looking Glass’, cit., p. 7.

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25 tempo fino all’acquisizione dell’uso completo della parola.’58 Sfruttando allo stesso

tempo il significato letterale e metaforico, Agamben argomenta che l’infanzia caratterizza l’essere umano nella sua assenza del linguaggio, e per estensione riferisce al periodo in cui il bambino si dimostra capace di parlare, ma non si è ancora appropriato dell’uso politico-sociale del discorso.59

Secondo Agamben, la condizione infantile del bambino risulta esemplare per la distinzione fra il semiotico e il semantico, come proposta da Emile Benveniste. Partendo dalla teoria benvenistiana, Agamben considera l’infanzia un’esperienza trascendentale che coincide con le origini del linguaggio, in cui la differenza fra il semiotico, cioè l’ambito del segno linguistico, e il semantico, cioè l’ambito del discorso, è ancora percepibile.60 In quanto tale, l’infanzia è il momento in cui il linguaggio non si

è ancora trasformato in discorso. Un ritorno all’infanzia rappresenta allora un ritorno alla possibilità di un’esperienza ‘muta’:

Un’esperienza originaria, lungi dall’essere qualcosa di soggettivo, non potrebbe essere allora che ciò che, nell’uomo, e prima del soggetto, cioè prima del linguaggio: un’esperienza “muta” nel senso letterale del termine, una in-fanzia dell’uomo, di cui il linguaggio dovrebbe, appunto, segnare il limite.61

Alla luce di tale osservazione, bisogna enfatizzare che l’infanzia nel pensiero agambeniano non è necessariamente un ritorno cronologico ad un tempo o uno spazio che precede il linguaggio, ma che il concetto rappresenta l’esperienza del linguaggio

58 Ivi, p. 45; “Infanzia”, in: (s.a.), Treccani vocabolario on line, http://www.treccani.it/vocabolario/infanzia/,

consultato 30 giugno 2018; “Infante”, in: (s.a.), Dizionario etimologico online,

https://www.etimo.it/?term=infante&find=Cerca, consultato 30 giugno 2018; “Infanzia”, in: Mario Cannella and Beata Lazzarini (a cura di), Lo Zingarelli: Vocabolario della lingua italiana, 12° ed., Pioltello: Zanichelli 2014.

59 Leland de la Durantaye, Giorgio Agamben, cit., pp. 92-93.

60 Giorgio Agamben, Infanzia e Storia, cit., p. 50. Bisogna enfatizzare che sia Agamben che Benveniste

vedono la realtà linguistica come una singola entità nella quale non c’è distinzione fra il semantico e il semiotico. Nell’uso pratico del linguaggio, quindi, lingua e discorso sono necessariamente inseparabili. Si enfatizza perciò che anche in questa tesi il ritorno all’infanzia va soprattutto interpretata in modo metaforico, come simbolo della possibilità di minare precedere la memoria collettiva. Si veda: Ivi, pp. xi-xii.

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26 prima che viene trasformato in discorso.62 In quanto tale, l’infanzia è la radicale

potenzialità del linguaggio, in cui la posizione politico-ideologica non è ancora definita. Nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza, il bambino entra nel linguaggio gradualmente: il suo ‘linguaggio puro’, come Agamben chiama il linguaggio preideologico e spregiudicato del bambino, si trasforma in discorso. Tale passaggio rappresenta, secondo Agamben, l’entrata nella Storia: ‘È l’infanzia, è l’esperienza trascendentale della differenza fra lingua e parola, che apre per la prima volta alla storia il suo spazio.’63 Nell’uso del bambino come topos dell’infanzia, si riconosce quindi il

tentativo di rappresentare una sospensione dell’accesso alla Storia dei ‘grandi’ fatti: il bambino, ancora non completamente familiare con l’uso del semantico e quindi non ancora entrato nell’ambito del discorso, è potenzialmente in grado di rivendicare l’esperienza non-mediata, ovvero uno sguardo sul mondo che non coincide con il discorso storico-politico.

Tuttavia, mentre il concetto di infanzia immagina la possibilità di un’esperienza ‘muta’ o ‘senza parola’ che mina la pesantezza del discorso, Agamben enfatizza che quando espressa, l’esperienza diventa subito inautentica, perché entra nell’ambito di un discorso che è necessariamente pre-mediato: ‘la costituzione del soggetto nel linguaggio e attraverso il linguaggio è precisamente l’espropriazione di questa esperienza “muta”, è, cioè, sempre già “parola.”64 Ciò significa che la

rivendicazione dell’esperienza avviene soltanto nella sua rappresentazione metaforica o finzionale. A tale proposito, Giovanna de Luca estende la teoria agembeniana all’ambito del cinema, sostenendo che:

Applicando l’assunto agambeniano all’uso del punto di vista infantile nel cinema, è possibile affermare che quest’ultimo ha il compito di trasformare l’esperienza muta in esperienza discorsiva, ovvero di

62 Alex Murray, ‘Beyond Spectacle and the Image: The Poetics of Guy Debord and Agamben’, in: Justin

Clemens, Nicholas Heron and Alex Murray (eds.), Work of Giorgio Agamben: Law, Literature, Life, Edinburgh: Edinburgh University Press 2008, pp. 164-179; Agamben immagina che ogni espressione viene preceduta da un attimo di infanzia, in cui tale espressione non è ancorata nel linguaggio ed è quindi ancora potenziale.

63 Giorgio Agamben, Infanzia e Storia, cit., p. 51. 64 Ivi, cit., p. 45.

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27 trasmettere allo spettatore adulto, spogliato dell’esperienza, una visione

del reale ricca di interpretazioni. Lo sguardo infantile riesce quindi ancora a costruire un ponte tra significato e significante in quanto la iper-sviluppata sensorialità del bambino è alla instancabile ricerca di un codice attraverso cui esprimere tali percezioni.65

L’argomento della de Luca presuppone che lo sguardo del bambino nel cinema non coincide con un punto di vista discorsivo, e di conseguenza considera l’immagine cinematografica come esempio di un’espressione ‘muta’, per cui è in grado di

rappresentare un’interpretazione nuova e spregiudicata del mondo intorno.66 Secondo

la de Luca infatti, ‘visualizzando l’infanzia e ritornando alla nostra infanzia, si realizza così la costruzione di una nuova storia del discorso umano’, in quanto il bambino rappresenta un ‘nuovo interprete della realtà la cui visione porta ad una riscoperta dell’umanità non attraverso insegnamenti morali, quanto tramite la poetica riflessione

sul reale.’67 Anche se il mezzo cinematografico non è privo di discorso, perché anche

esso è mediato da immagini pre-esistenti, l’approccio della de Luca dimostra che il punto di vista del bambino nel cinema potrebbe diventare simbolo della possibilità di reinventare il linguaggio con cui riferirsi alla Storia. Ciò viene confermato da Vickey Lebeau che nell’ambito dei childhood studies, in virtù della sovversione simbolica della parola, riconosce nel cinema un mezzo privilegiato per accedere all’infanzia, in quanto

l’immagine cinematografica è capace di mostrare e narrare contemporaneamente.68

Dal pensiero agambeniano sull’infanzia risulta inoltre centrale l’idea che, siccome l’essere umano non dispone del linguaggio fin dalla nascita, per accedere al sistema linguistico, deve ‘prendere la parola’: ‘L’uomo, invece, in quanto ha un’infanzia, in quanto non è sempre già parlante, […] per parlare, deve costituirsi come

soggetto del linguaggio, deve dire io.’69 In modo da entrare nel discorso, e quindi di

posizionarsi nella narrazione storica, l’essere umano deve costruirsi come un io

65 Giovanna de Luca, Il punto di vista dell’infanzia nel cinema italiano e francese, cit., p. 26. 66 Ivi, cit., p. 20.

67 Ivi, p. 1, p. 3.

68 Vickey Lebeau, Childhood and Cinema, London: Reaktion Books 2008, pp. 16-17.

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28 linguistico. In quanto tale, Agamben sostiene che la soggettività sia un effetto del

linguaggio e che l’identità del soggetto dipenda dalle condizioni poste dal discorso.70

Ciò vuol dire che il bambino può rivendicare una sua soggettività, oppure una sua identità memoriale, soltanto quando esso coincide con il discorso.

Trasferendo il concetto dell’infanzia all’ambito della memoria, si ipotizza che per poter rivendicare la soggettività memoriale, essa debba essere facilitata dal discorso che caratterizza la memoria collettiva. Mentre di solito il bambino entra nello spazio del discorso attraverso il linguaggio dei suoi parenti o maestri, si è visto che la memoria collettiva degli anni Settanta viene occupata dal discorso sulla violenza politica che non lascia spazio alla narrazione della vita ordinaria.71 Per poter entrare nella Storia degli

anni Settanta, quindi, il bambino si deve costruire un ‘io-memoriale’ che coincide con la traccia binaria del discorso collettivo. Perciò, si ipotizza che la possibilità di fare resistenza al discorso memoriale sugli ‘anni di piombo’, abbia luogo soltanto prima che il bambino entri nel discorso, cioè soltanto durante l’infanzia. Nel secondo capitolo, si vedrà perciò come i tre film utilizzano la focalizzazione del bambino per poter creare degli instanti di infanzia nei quali è possibile minare l’antagonismo interno che occupa il discorso storico-memoriale degli anni Settanta.

Dunque, il concetto di infanzia come proposto da Agamben si rivela uno strumento per poter criticare la tensione antagonista che caratterizza il discorso degli anni Settanta, offrendo, come si vedrà nei prossimi capitoli, un’alternativa in cui la posizione discorsiva, e quindi ideologica e politica, non è ancora definita.72 Presentando

il punto di vista dell’infanzia, i tre film propongono di inventare un nuovo codice interpretativo degli anni Settanta e di raccontare l’esperienza del bambino in quanto ancora ‘muta.’ Si vedrà nel prossimo paragrafo che tale (in)esperienza ‘muta’, in quanto

70 Ivi, pp. 42-43. Si veda anche: Kevin Attell, Giorgio Agamben: Beyond the Threshold of Deconstruction,

[ebook], New York: Fordham University Press 2015.

71 L’interruzione di tale passaggio verrà approfondita nel terzo capitolo.

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29 esclusa dal discorso storico-memoriale, porta alla rivendicazione di una ‘non-storia’ come alternativa alla memoria collettiva degli ‘anni di piombo.’

1.3 Storia o non-storia: gli anni Settanta oltre il discorso collettivo

Riguardo La Storia (1974) di Elsa Morante, Marco Belpoliti sostiene che attraverso il bambino-protagonista Useppe, la scrittrice è in grado di privilegiare delle ‘storie che rendono narrabile la Grande Storia, magari per antitesi, per opposizione […].’73 In

quanto tale, lo studioso ipotizza che l’opera della Morante sfidi la Storia in modo paradossale, svelando ‘l’irrealtà’ della testimonianza dei ‘grandi fatti.’74 In questo

paragrafo si cerca di dimostrare che i tre film si collocano in tale posizione in quanto emerge dal ritorno all’infanzia una simile opposizione alla Storia dei ‘grandi’ fatti. Si ipotizza che il punto di vista cinematografico del bambino non risulti in una narrazione di contro-storia, ma che la privazione dell’accesso alla Storia e la conseguente inesperienza del bambino crea un’opposizione più radicale; una non-(ancora)-storia.

La possibilità di una non-storia è compresa nell’idea agambeniana che la Storia si svolge nel passaggio dal linguaggio ‘puro’ al discorso. Tale ipotesi implica la sospensione della Storia quando il passaggio non è ancora avvenuto: ciò vuol dire che l’esperienza ‘muta’ del bambino è ancora in grado di minare il discorso binario degli anni Settanta e la classificazione della memoria collettiva in identità fisse. Si nota che il termine non-storia fu utilizzato da Benedetto Croce per intendere ‘una realtà che non sia storica, in quanto priva dei movimenti concreti di una concreta esperienza.’75

Seguendo la nozione crociana, poi, Ernesto di Martino aggiunge che il concetto di ‘non-storia’ si riferisce a ciò che è ‘estranea ai grandi cambiamenti avvenuti dall’epoca.’76

73 Elsa Morante, La Storia, Torino: Einaudi 1974; Marco Belpoliti, Settanta, cit., p. 38. 74 Ibidem.

75 Fulvio Tessitore, Contributi alla Storia e alla Teoria dello Storicismo, Roma: Edizioni di Storia e

Letteratura 2000, pp. 285-286

76 Giuseppe Lupo, ‘L’Unità d’Italia nella narrativa della non-storia, dell’antistoria e della controstoria’, in:

Italianistica, no. 2 (2011), p. 212. Bisogna notare che Croce e Di Martino si riferiscono in particolare all’epoca del Risorgimento e formulano la nozione di non-storia per intendere l’assenza di uno sviluppo progressivo nell’Italia meridionale. In questa tesi, il termine non-storia viene ri-contestualizzato negli anni Settanta, per cui scompare la connotazione temporale e spaziale della teoria crociana.

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30 Nonostante che Croce e di Martino leghino il concetto in particolare all’assenza di uno sviluppo progressivo della Storia, si osserva che l’inesperienza del bambino di fronte alla storia degli anni Settanta risulta infatti dalla sua estraneità ai grandi fatti e dalla seguente impossibilità di rivendicare esperienze oltre il discorso collettivo. Prendendo in prestito il termine di Rosi Braidotti, il bambino viene ridotto ad un ruolo ‘a-signifying’, cioè all’impossibilità di far diventare storica la sua storia.77 In quanto tale,

l’esperienza del bambino può soltanto essere ciò che non viene interpretato, ciò che non è discorso e quindi ciò che non è Storia.

Tale idea si riflette nell’ambito cinematografico nel quale, secondo Lesley Caldwell, spesso ‘[t]he child is rendered innocent of the contradictions which flaw our interaction with the world.’78 Il bambino non è entrato nel discorso, per cui non ha

ancora definito la sua posizione politico-ideologico; non è né a destra, né a sinistra; né comunista, né fascista; né operaio, né borghese; né vittima, né carnefice; e in quanto tale né Storia, né contro-storia. Tale possibilità di sovversione delle categorie fisse che caratterizza il ruolo ambiguo e potenziale del bambino, emerge per esempio da La Kryptonite nella borsa, quando Peppino e sua zia attendono una riunione femminista: “Zio Salvatore non viene con noi?’ –‘No, sono ammesse solo donne’ ‘E io allora?’

-‘Tu non conti, tu sei un bambino.”79 Quindi, l’infanzia, in quanto precede il discorso

dominante, è la condizione potenziale della Storia e in quanto tale, il bambino simbolizza ciò che non è (ancora) Storia.

Dall’osservazione di Belpoliti, citata qui sopra, emerge che La storia della Morante gioca con la nozione di Storia, dimostrando che il punto di vista del bambino è in grado di intrecciare la Storia con delle storie. Siccome nella lingua italiana la differenza fra storia, inteso come racconto, e Storia, inteso come la narrazione collettiva delle ‘grandi’ vicende di cronaca, diventa esplicita soltanto nel linguaggio scritto, tale differenza appartiene necessariamente all’ambito del discorso, da cui il bambino è

77 Rosi Braidotti, Transpositions: On Nomadic Ethics, Cambridge: Polity 2006, p. 167.

78 Lesley Caldwell, ‘Ragazzo Fortunato’, cit., p. 67. 79 Ivan Cotroneo, La Kryptonite nella borsa, cit., [00.39.24].

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31 escluso. Perciò, il ritorno all’infanzia decostruisce la differenza fra storia individuale e Storia collettiva. Similmente all’opera della Morante, quindi, i tre film confermano questo assunto.

Si è visto dunque che l’altro della ‘Storia’ non è la contro-Storia, ma la non-storia, ed è soltanto tale non-storia del bambino che riesce a sfuggire la traccia binaria del discorso memoriale sugli anni Settanta. Il termine non-storia enfatizza non soltanto l’assenza della percezione dei ‘grandi’ fatti della Storia degli ‘anni di piombo’ nel racconto infantile, ma anche il suo necessario legame ad esso: la non-storia del bambino sembra essere infatti l’ordinario che rende straordinari i ‘grandi’ fatti; la storia che rende narrabile la ‘Grande Storia.’80 In quanto tale, si vedrà nel prossimo capitolo che il

bambino riesca ancora a visualizzare una memoria frammentata, incompleta e destabilizzante che, come osserva Aleida Assmann, caratterizza la memoria individuale prima che entra nel discorso collettivo.81 Nel prossimo capitolo si vedrà come

l’inesperienza del bambino e la sua infanzia vengono sfruttate nei tre film per poter recuperare il suo sguardo che è in grado di offrire ‘un’alternativa meno tragica della realtà.’82

80 Marco Belpoliti, Settanta, cit., p. 38.

81 Aleida Assmann, ‘Re-framing memory’, cit., p. 4.

82 Eleonora Conti, ‘L'infanzia fra utopie, desideri impossibili e distopie nella letteratura italiana degli anni

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32 2. ‘L’innocenza rivoluzionaria’ dell’infanzia e il punto di vista del bambino

L’assenza del punto di vista del bambino nella memoria degli anni Settanta contrasta con la sua iper-presenza nel cinema italiano fin dal secondo dopoguerra. Patrizia Bettella situa le origini della preoccupazione con il bambino nel cinema in I bambini ci guardano (1943) di Vittorio de Sica, nel quale viene sfruttata l’idea dell’infanzia come il ‘topos dell’innocenza rivoluzionaria.’83 Secondo la Bettella, le opere di De Sica, e

successivamente quelle di registi come Luigi Comencini, Nanni Moretti e Francesca Archibugi, propongono una duplice prospettiva sui bambini i quali si configurano sia come gli oggetti più deboli della società che come spiriti liberi ‘[w]ho stare directly and provocatively because their gaze is still not structured by society and culture.’84 A ciò

si aggiunge che la continuità del topos del bambino risiede soprattutto nel suo ruolo come testimone dell’ansia degli adulti, come simbolo della speranza e del rinnovamento e come nostalgia per il passato. Giovanna de Luca lo chiama infatti il ‘termometro verificatore dello status della società’ che viene utilizzato soprattutto in momenti storici particolarmente difficili.85 Anche se l’iper-presenza di bambini nel cinema è stata messa

in luce da alcuni studiosi, Lesley Caldwell sostiene che la figura del bambino sia spesso stata data per scontato, riducendola ad un oggetto stereotipato, e sottolinea che ‘[t]his taken-for-grantedness is itself one of the issues at stake in the ubiquity of the child’s place in Italian cinema and in Italian culture more generally.’86 L’idea della presenza

ambigua del bambino, in quanto oggetto e soggetto, presente e ignorato allo stesso tempo, si riflette in un lamento del bambino-protagonista Dario in Anni felici:

83 Patrizia Bettella, ‘Introduction’, in: Quaderni d’italianistica, no. 2 (2013), p. 5; Vittorio de Sica, I bambini

ci guardano, Scalera Film (1943). La Bettella nota una discrepanza fra la presenza di bambini nel cinema e i film indirizzati ad un pubblico infantile. Anche se quest’osservazione è interessante per quanto riguarda l’assenza di film ambientati negli anni Settanta per i bambini, l’analisi di tale assenza è oltre lo scopo di questa tesi.

84 Patrizia Bettella, ‘Introduction’, cit., p. 5.

85 Danielle Hipkins, ‘The child in Italian Cinema’, cit., p. 2; Giovanna de Luca, Il punto di vista dell’infanzia

nel cinema italiano e francese, cit., p. 3; si veda anche: Eleonora Conti, ‘L'infanzia fra utopie, desideri impossibili e distopie nella letteratura italiana degli anni Duemila’, cit., p. 25.

Referenties

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